— Non lo sei. — Chi-Yuen poté percepire la difficoltà con cui egli aveva pronunciato quelle parole.
— Sei sicuro di non aver commesso uno sbaglio?
— Che cosa c’è da spiegare? Non so che farmene di quei tipi il cui principale interesse sono le loro misere e sporche nevrosi personali. Non in un universo ricco come questo.
— Non hai mai parlato della tua infanzia, per esempio — continuò Chi-Yuen. — Io ti ho fatto partecipe della mia.
Egli emise una specie di risata sbuffante. — Considerati fortunata. I bassi livelli di Polyugorsk non erano piacevoli.
— Ho sentito parlare delle condizioni in cui si viveva laggiù. Non ho mai capito come si siano create.
— L’Autorità di Controllo non poteva agire. Non si poteva mettere in pericolo la pace mondiale. I capi locali erano troppo utili in troppi modi alle più alte personalità nazionali perché fossero eliminati. Come alcuni dei signori della guerra del tuo paese, immagino, o i Leopardi su Marte prima che fosse provocato lo scontro. Nell’Antartico c’era un sacco di denaro potenziale, per coloro che non avessero esitato un attimo a prosciugare le ultime risorse, a sterminare i resti di vita selvaggia, a violentare l’ultimo deserto bianco… — Si fermò. Il tono della sua voce si era fatto più alto. — Be’, tutto questo è ormai dietro di noi. Mi chiedo se la razza umana farà qualcosa di meglio su Beta Tre. Io quasi ne dubito.
— Come hai imparato a preoccuparti di queste cose? — chiese la donna, in sordina.
— Un maestro, per cominciare. Mio padre fu ucciso quando io ero ancora bambino e, quando ebbi raggiunto i dodici anni, mia madre aveva quasi finito di scendere la scala dell’abiezione. Però avevamo quest’uomo, Melikot, un abissino, non so come sia finito in quel buco infernale che era la nostra scuola, ma viveva per noi e per ciò che ci insegnava, e noi ce ne rendemmo conto e il nostro cervello si risvegliò… Non sono sicuro che mi abbia fatto un favore. Cominciai a pensare e a leggere, e ciò mi portò a parlare e a fare, e così mi misi nei guai finché dovetti svignarmela su Marte, non importa come… Sì, suppongo che, vedendo le cose alla lontana, egli mi abbia fatto un favore.
— Vedi — disse la donna, sorridendo dietro al suo elmetto, — non è difficile togliersi una maschera.
— Che vuoi dire? — domandò Reymont. — Sto soltanto cercando di accontentarti, nulla di più.
— Perché ben presto potremmo essere morti. Anche questo mi dice qualcosa su di te, Charles. Comincio a vedere il perché delle cose, l’uomo che sta dietro ad esse. Perché dicono che, nel Sistema Solare, tu eri onesto ma avaro, per citare un particolare volgare. Perché eri sempre burbero e non cercavi mai di vestirti bene sebbene avessi il fisico adatto, e nascondevi quel tuo carattere possessivo dietro un ’Andate per la vostra strada se non volete andare per la mia’ che può esser veramente raggelante, e…
— Smettila! Un’indagine psicanalitica basata su pochi fatti elementari avvenuti quand’ero bambino?
— Oh, no, no. Ciò sarebbe ridicolo, lo riconosco. Ma si può riuscire a capire qualcosa, dal modo in cui me li hai raccontati. Un lupo alla ricerca di una tana.
— Basta!
— Certo. Sono felice che tu… Non insisterò mai più, a meno che tu lo voglia. — L’immagine evocata da Chi-Yuen evidentemente indugiò nella sua coscienza, perché la donna riprese a dire, con voce pensosa: — Mi mancano gli animali. Più di quanto mi aspettassi. Nella casa dei miei genitori avevamo pesci e canarini. A Parigi Jacques e io avevamo un gatto. Finché non abbiamo intrapreso questo lungo viaggio, non mi ero mai resa conto di quanta parte del mondo siano le altre creature animali. I grilli nelle notti estive, una farfalla, un colibrì, i pesci che saltano nell’acqua, i passeri per strada, i cavalli con le loro narici di velluto e un odore tiepido… Pensi che troveremo qualcosa di simile agli animali terrestri su Beta Tre?
Avvenne l’urto.
Troppo velocemente si mutò un troppo grande schema d’attacco. La delicata danza delle energie che bilanciavano le pressioni acceleratrici non poteva più continuare. I suoi coreografi computerizzati ordinarono a un circuito di infrangersi, chiudendo quel particolare sistema, prima che la reazione positiva lo distruggesse.
Gli esseri umani che si trovavano a bordo sentirono soltanto il loro peso spostarsi e cambiare. Un gigante si sedette sul loro torace e soffocò la loro gola. Sugli occhi calò un’oscurità sfrangiata. Il sudore irrorò copioso la pelle, il cuore pulsava violentemente, il polso sembrava impazzito. Intanto l’astronave rispondeva con altri suoni, gemiti metallici, strazianti lacerazioni, schianti. Non era stata creata per resistere a una simile tensione. I suoi fattori di sicurezza erano ridotti al minimo: la massa era troppo preziosa. E comprimeva atomi d’idrogeno gonfiati fino al peso dell’azoto o dell’ossigeno, particelle di polvere che avevano assunto le dimensioni di meteoriti. La velocità aveva appiattito in senso longitudinale la nuvola, l’aveva resa sottile, l’astronave la lacerò e l’attraversò in pochi minuti. Ma, per la stessa ragione, la nebulosa non era più una nuvola, nei confronti della Leonora Christine. Era un muro solido, che si ergeva proprio davanti a essa.
Gli schermi di forza esterni dell’astronave assorbirono l’impatto, spinsero di lato la materia in correnti turbolente, protessero lo scafo da tutto tranne che dalla resistenza aerodinamica. La reazione fu inevitabile, sugli stessi campi e quindi su tutto l’apparato che, disposto esternamente, li produceva e li controllava. Le strutture si abbatterono, i componenti elettronici fusero, i liquidi criogenici fuoriuscirono bollendo dai contenitori infranti.
Così uno dei fuochi termonucleari fu distrutto.
Le stelle videro l’avvenimento in modo diverso. Videro una tenue massa oscura che veniva colpita da un oggetto incredibilmente veloce e denso. Forze idromagnetiche strappavano gli atomi, li facevano turbinare tutt’intorno, li ionizzavano, li fondevano, nell’intensa luce emessa dalle radiazioni. L’oggetto era circondato da una vampa meteorica. Durante l’ora del suo passaggio, si scavò un tunnel nella nebulosa. Questo tunnel era più largo del trapano, perché un’onda d’urto si propagava all’esterno — sempre più all’esterno, distruggendo quanto di stabile vi era nella nebulosa, proiettando la materia solida ridotta in brandelli.
Se un sole o dei pianeti vi fossero stati in embrione, ora non si sarebbero mai più formati.
L’invasore passò. Non aveva perso molta della sua velocità. Continuando sempre ad accelerare, proseguì la sua marcia allontanandosi verso stelle più remote.
CAPITOLO NONO
Reymont lottò per tornare a riacquistare coscienza. Non poteva essere rimasto troppo a lungo privo di sensi. O forse era il contrario? Il rumore era cessato. Era diventato sordo? L’aria era uscita da qualche buco, dileguandosi nello spazio? Gli schermi erano crollati, la cromatica morte prodotta dai raggi gamma era già scesa su di lui?
No. Ascoltando con attenzione, avvertì il familiare battito lento dei motori. Il pannello al fluoro scintillava fermamente nel suo campo visivo. L’ombra del suo bozzolo cadeva su una parete e aveva i contorni confusi che suggerivano la presenza di un’atmosfera non rarefatta. Il peso era tornato a una sola g. Se non altro, la maggior parte dei meccanismi automatici dell’astronave doveva essere ancora in funzione. — Al diavolo il melodramma — si sentì dire. La sua voce gli arrivò come da molto lontano, la voce di un estraneo. — Abbiamo da lavorare.
Tentò maldestramente di sganciarsi le cinture di sicurezza. I muscoli gli tremavano e dolevano. Un rivolo di sangue, dal sapore salato, gli entrò in bocca. O era sudore? Nichevo. Era in grado di muoversi. Riuscì freneticamente a liberarsi, si aprì l’elmetto, annusò — un leggero odore di bruciato e di ozono, niente di serio — e si godette una profonda inspirazione.