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La cabina si rivelò completamente sconvolta. I cassetti dell’armadio si erano aperti ed avevano sparpagliato un po’ dovunque il loro contenuto. Ma Reymont non vi badò particolarmente, preoccupato piuttosto per Chi-Yuen che non aveva risposto ai suoi richiami. Si aprì la strada tra il groviglio di abiti fino alla fragile figura femminile. Dopo essersi sfilato i guanti di protezione, le sganciò la parte anteriore dell’elmetto che le copriva il viso. Il respiro della donna aveva un suono normale, non avvertì alcun sibilo o gorgoglio che potessero far sospettare emorragie interne. Quando le sollevò una palpebra, la pupilla era rovesciata. Probabilmente era soltanto svenuta. Si tolse l’armatura, andò a prendere la pistola a salve e se l’assicurò alla cintura. Altri potevano aver bisogno del suo aiuto in condizioni peggiori. Uscì dalla cabina.

Boris Fedoroff stava scendendo rumorosamente le scale. — Come va? — l’apostrofò Reymont.

— Sto andando a vedere — rispose l’ingegnere e scomparve.

Reymont sogghignò acidamente ed entrò nella metà cabina di Johann Freiwald. Anche il tedesco si era tolto l’armatura e sedeva accasciato sulla branda. — Raus mit dir - esclamò Reymont.

— Ho un tale mal di testa che mi sembra di avere dei falegnami nel cranio — protestò Freiwald.

— Ti sei offerto di far parte della mia squadra. Pensavo che tu fossi un uomo.

Freiwald lanciò a Reymont un’occhiata risentita, ma balzò in piedi.

Per tutta l’ora che seguì le reclute del poliziotto ebbero il loro daffare. I membri effettivi dell’equipaggio dell’astronave furono ancora più occupati, a ispezionare, misurare, discutere in toni smorzati. Ciò non diede loro il tempo e la possibilità di provare dolore o lasciarsi sommergere dal terrore. Invece gli scienziati e i tecnici non avevano un tale antidoto. Avrebbero potuto sentirsi felici del fatto di essere ancora vivi e con l’astronave apparentemente nelle stesse condizioni di prima… ma perché Telander non comunicava qualcosa? Reymont li costrinse a riunirsi nelle sale comuni, obbligò alcuni a preparare un po’ di caffè e altri ad assistere quelli che avevano riportato contusioni serie. Alla fine si sentì libero di recarsi sul ponte di comando.

Si fermò un attimo a dare un’occhiata a Chi-Yuen, come aveva già fatto prima, a intervalli. La donna aveva finalmente ripreso i sensi, si era sganciata l’armatura ma era crollata sul letto prima di riuscire a sfilarsela del tutto. Una leggera fiamma si accese in lei quando vide Reymont. — Charles — sussurrò.

— Come stai? — le chiese il suo compagno.

— Sono dolorante e mi pare di essere priva di forze, ma…

Reymont le sfilò il resto della tuta. La donna trasalì sotto i suoi gesti rudi. — Senza questo peso, dovresti farcela a salire fino alla palestra — le disse. — Il dottor Latvala può visitarti. Nessun altro ha subito danni troppo gravi, perciò è improbabile che sia capitato a te. — La baciò, un breve e insignificante tocco di labbra. — Scusami se sono così poco cavalieresco, ma ho molta fretta.

Se ne andò. La porta del ponte di comando era chiusa. Bussò. La voce di Fedoroff rimbombò dall’interno: — Nessuno può entrare. Aspettate che il capitano vi faccia sapere qualcosa.

— Sono il commissario di bordo — rispose Reymont.

— Be’, si occupi delle sue mansioni.

— Ho riunito i passeggeri. Stanno superando il loro stato di stordimento e cominciano a rendersi conto che qualcosa non va per il giusto verso. Non sapendo di che cosa si tratta, nelle loro attuali condizioni, potrebbero lasciarsi prendere dalla disperazione. Forse potremmo non riuscire più a rimetterli di nuovo in piedi.

— Dica loro che tra breve sarà emesso un comunicato — si udì la voce incerta di Telander.

— Non può dirglielo lei, signore? Il sistema di comunicazione interna è funzionante, non è così? Dica loro che state facendo un esatto inventario dei danni allo scopo di stendere un programma di pronto intervento. Ma io suggerirei, signor capitano, di farmi prima di tutto entrare per aiutarla a trovare le parole giuste per spiegare il disastro.

La porta si spalancò. Fedoroff afferrò Reymont per un braccio e cercò di tirarlo indietro. Il poliziotto si liberò con uno strattone, una mossa da judo. La sua mano si alzò pronta a vibrare un colpo di taglio. — Non lo faccia mai più — disse. Entrò nella sala e si chiuse la porta alle spalle.

Fedoroff emise una specie di grugnito e strinse i pugni. Lindgren si precipitò accanto a lui. — No, Boris — lo pregò. — Per favore. — Il russo si calmò, anche se a fatica. Nel silenzio appena rotto da un monotono pulsare i presenti fissarono Reymont: erano il capitano, il primo ufficiale, l’ingegnere capo, l’ufficiale di rotta e il direttore dei biosistemi. Il poliziotto li ignorò e il suo sguardo andò oltre: i pannelli erano stati gravemente danneggiati, numerosi aghi degli strumenti di misurazione erano ritorti, alcuni schermi erano infranti, parecchi cavi si erano staccati.

— È questo il danno maggiore? — chiese, indicandoli.

— No — ripose Boudreau, l’ufficiale di rotta. — Possiamo sostituirli con altri pezzi.

Reymont andò a guardare il videoscopio. I circuiti compensatori erano stati ugualmente danneggiati e non funzionavano più. Si avvicinò al periscopio elettronico e infilò la faccia nel mantice.

Un simulacro emisferico balzò dall’oscurità davanti ai suoi occhi, la scena era distorta come avrebbe potuto scorgerla se si fosse trovato all’esterno dello scafo. Le stelle erano affollate sul davanti e scorrevano ai lati dell’astronave in un fluire rarefatto; mandavano radiazioni blu acciaio, violetto, raggi X. A poppa lo spettacolo si avvicinava a quello che era familiare prima della collisione — ma non completamente — e i soli erano diventati rossi come tizzoni. Quasi preso da un leggero brivido, Reymont rialzò la testa nella confortevole intimità della sala di comando.

— Allora? — esclamò.

— Il sistema di decelerazione… — Telander fece appello a tutto il suo coraggio. — Non possiamo più fermarci.

Il volto di Reymont era privo d’espressione. — Continui.

Fedoroff prese la parola. Il suo tono era quasi sprezzante. — Lei ricorderà, spero, che abbiamo attivato il sistema di decelerazione del modulo Bussard per produrre e manovrare due unità. Tale sistema è distinto da quello che serve per accelerare, perché per rallentare noi non spingiamo il gas nello statoreattore ma invertiamo il suo momento d’inerzia.

Reymont non si lasciò coinvolgere da quel tono insultante. Lindgren trattenne il fiato e, dopo un momento, Fedoroff cedette.

— Allora — proseguì stancamente, — anche gli acceleratori erano in funzione, a un livello di potenza molto più alto. Per questa ragione, senza dubbio, la loro forza di campo li ha protetti. I deceleratori, invece… spazzati via. Fatti a pezzi.

— Come?

— Possiamo soltanto dedurre che vi sono stati danni materiali ai loro apparati esterni di controllo e ai generatori e che la reazione termonucleare che li attivava si è estinta. Poiché gli apparecchi misuratori collegati al sistema non forniscono dati — devono essere stati distrutti a loro volta — non possiamo dire esattamente quale sia la reale entità del danno.

Fedoroff guardò il quadro dei comandi. Le parole gli uscivano di bocca più simili a un soliloquio che a un rapporto. Un uomo disperato seguiterà a raccontare fatti ovvi, tornandoci sopra in continuazione. — In questo caso, i deceleratori devono essere stati soggetti a una tensione maggiore di quella che si è esercitata sugli acceleratori. Immagino che quelle forze, reagendo attraverso i campi idromagnetici, abbiano distrutto la protezione materiale in quella parte del modulo Bussard.