— A meno che una spedizione non sia stata inviata dalla Terra dopo la nostra partenza — suggerì il pilota Lenkei. — Sono trascorsi secoli, secondo il tempo terrestre. Immagino che stiano facendo scoperte meravigliose.
— Certamente non staranno inviando sonde al centro della galassia — obiettò il cosmologo Chidambaram. — Trenta millenni per arrivarci e altrettanto per rimandare indietro il messaggio? Non ha senso. Immagino che l’uomo si propagherà nello spazio, colonia dopo colonia.
— Sempre che non sia riuscito a costruire mezzi più veloci della luce — disse Lenkei.
Il viso dalla carnagione scura e il corpo dall’ossatura minuta rispecchiarono un disprezzo di cui egli non aveva mai dato prova a tal punto. — Che ipotesi fantastica! Se vuoi scrivere da capo tutto ciò che abbiamo imparato da Einstein in poi — no, da Aristotele in poi, considerando la contraddizione logica insita in un segnale che sia privo di un limite di velocità — continua.
— Non è il mio genere. — La snellezza da levriere di Lenkei sembrò di colpo emaciata. — D’altronde, non mi piacerebbe una velocità maggiore di quella della luce. L’idea che altri possano volare da una stella all’altra come uccelli — come me da città a città quando ero sulla Terra — mentre noi stiamo chiusi in questa gabbia… sarebbe troppo crudele.
— Il nostro destino non può essere mutato dalla loro fortuna — replicò Chidambaram. — Anzi, l’ironia darebbe ad esso un’altra dimensione, un’altra sfida, se preferisci.
— Ho ricevuto più sfide di quante ne volessi — esclamò Lenkei.
I loro passi risuonavano sui gradini e su per la rampa delle scale. Stavano risalendo da una stanza a livello più basso, dove Nilsson aveva convocato Foxe-Jameson e Chidambaram per udire il loro parere a proposito del disegno di un grande reticolo a diffrazione cristallina.
— Per te è più facile — proruppe il pilota con veemenza. — Tu servi davvero a qualcosa. Tutti noi dipendiamo dalla tua équipe. Se voi non riuscite a produrre nuovi strumenti per noi… Che cosa rappresento io, finché non raggiungeremo un pianeta dove ci sia bisogno di trasporti e veicoli spaziali?
— Tu ci aiuti a costruire questi strumenti, o lo farai quando ne avremo preparato i piani — disse Chidambaram.
— Sì, mi sono messo a far pratica con Sadek. Tanto per impiegare in Qualche modo questo dannato tempo inoperoso. — Lenkei riprese il controllo di sé. — Mi dispiace. Questo è un atteggiamento di cui dovremo liberarci, lo so. Mohandas, posso farti una domanda?
— Certo.
— Perché hai voluto far parte di questa spedizione? Oggi sei una persona importante, ma se non avessimo avuto quell’incidente… non avresti potuto portare avanti le tue scoperte sull’universo rimanendo sulla Terra? Sei un teorico, mi hanno detto. Perché non lasciare che a raccogliere i dati siano uomini come Nilsson?
— Non sarei vissuto tanto a lungo da poter fare qualcosa di valido con i rapporti che sarebbero giunti da Beta Virginis. Sembrava che ci fosse un’intrinseca validità nel fatto che uno scienziato del mio tipo si esponesse a esperienze e impressioni completamente nuove. Avrei potuto verificare cose che altrimenti non mi sarebbe stato possibile controllare. Se fosse avvenuto il contrario, la perdita sarebbe stata minima e, nella peggiore delle ipotesi, avrei continuato a pensare praticamente come sulla Terra.
Lenkei si accarezzò il mento. — Sai — disse, — sospetto che tu non abbia bisogno di utilizzare la cabina dei sogni.
— Può darsi. Ti confesso che trovo tale procedimento privo di dignità.
— Ma allora, per l’amor di Dio, perché?
— Questione di regolamento. Dobbiamo ricevere tutti il trattamento. Io ho chiesto l’esonero, ma il commissario Reymont ha convinto il primo ufficiale Lindgren che un privilegio, anche se giustificato, avrebbe stabilito un fastidioso precedente.
— Reymont! Ancora quel bastardo!
— Può aver ragione lui — disse Chidambaram. — A me non fa certo male, a meno che non si consideri l’interruzione che provoca nello sviluppo dei miei pensieri, ma la cosa si verifica troppo raramente per costituire un reale handicap.
— Uhm! Sei più paziente di me.
— Sospetto che lo stesso Reymont debba far forza su se stesso per costringersi a entrare nella cabina dei sogni — osservò Chidambaram. — Ci va soltanto raramente, come permesso. Hai osservato, inoltre, che qualche volta beve ma mai al punto di ubriacarsi? Credo che si senta in obbligo, forse per qualche celato timore, di mantenere il proprio controllo.
— È così. Sai che cosa mi ha detto la settimana scorsa? Avevo preso in prestito un pezzo di lamiera di rame, l’avrei rimesso subito in circolo tramite la fornace e la fresa rotante, non appena avessi finito di adoperarlo, perciò non mi ero preoccupato di registrare tale prestito. Quel bastardo mi ha detto…
— Dimenticatelo — lo consigliò Chidambaram. — Ha un punto a suo favore. Non siamo su un pianeta e ogni cosa che perdiamo è persa per sempre. È meglio non correre rischi; e non si può negare che abbiamo tutto il tempo a nostra disposizione per espletare le procedure burocratiche. — Arrivarono all’ingresso del piano dove si trovavano le stanze dedicate ai passatempi. — Eccoci.
Si diressero verso le cabine ipnoterapeutiche. — Mi auguro che la tua esperienza sia piacevole, Matyas — disse Chidambaram.
— Anch’io. — Lenkei ammiccò. — Là dentro ho avuto alcuni terribili incubi. — Poi, eccitandosi: — E anche un bel po’ di divertimento!
Le stelle stavano diventando sempre più rare. La Leonora Christine non stava passando da un braccio a spirale della galassia a un altro — non ancora: era in una zona di relativo vuoto. Per mancanza di massa da immettere, la sua accelerazione diminuì. Tale condizione era soltanto temporanea, tanto ridotto era il suo tau: alcune centinaia di anni cosmici. Ma, per un certo periodo, gli schermi visivi rivolti a tribordo rivelarono soprattutto una notte nera.
Una certa parte dell’equipaggio lo trovò preferibile alle bizzarre forme e ai colori che risplendevano a babordo.
Arrivò un altro giorno del Patto. Le cerimonie e la festa che seguì furono meno tristi di quanto ci si sarebbe aspettati. Lo shock e l’infelicità erano stati smussati dal tran-tran quotidiano. In quel momento il sentimento dominante era la sfida.
Non tutti parteciparono alle celebrazioni. Elof Nilsson, per citare un caso, rimase nella cabina che divideva con Jane Sadler. Passò la maggior parte del tempo a fare disegni e calcoli per il suo telescopio esterno. Quando il cervello fu troppo stanco per continuare, consultò il catalogo della biblioteca in cerca di un’opera narrativa. Il romanzo che finalmente scelse, tra circa mille disponibili, si rivelò avvincente. Non l’aveva ancora finito quando Jane tornò.
Nilsson sollevò gli occhi, iniettati di sangue per la fatica. Fatta eccezione per lo schermo di lettura, la stanza era al buio. La donna rimase in ombra, massiccia, vistosa, leggermente vacillante.
— Buon Dio! — esclamò Nilsson. — Sono le cinque del mattino!
— Te ne sei finalmente reso conto? — Sadler sogghignò. Il puzzo di whisky che le aleggiava intorno raggiunse le narici di Nilsson, insieme a un profumo di muschio. L’uomo aspirò un po’ di tabacco, un lusso che occupava gran parte del suo bagaglio permesso.
— Non tocca a me essere di servizio tra tre ore — esclamò poi.