— Neanche a me. Ho detto al mio capo che volevo un permesso di una settimana. Ha acconsentito. Non avrebbe potuto fare altrimenti. Chi altri ha?
— Che atteggiamento è questo? Pensa se altri da cui dipende la vita dell’astronave si comportassero allo stesso modo.
— Tetsuo Iwamoto… anzi, Iwamoto Tetsuo: i giapponesi mettono prima il cognome, come i cinesi… come gli ungheresi, lo sapevi? … tranne quando vogliono essere gentili con noi occidentali ignoranti… — Sadler riuscì a riprendere il filo del discorso. — È piacevole lavorare con un uomo come lui. Per un po’ può cavarsela senza di me. Allora, perché no?
— Eppure…
La donna alzò un dito. — Non voglio essere rimproverata, Elof. Hai capito? Mi è venuto un complesso di inferiorità nei tuoi confronti maggiore di quanto avrebbe dovuto essere. E anche qualcos’altro. Pensavo che forse il resto di te sarebbe cresciuto tanto da eguagliare quel tuo quoziente intellettuale. Il troppo è troppo. Bisogna approfittare della situazione finché si può.
— Sei ubriaca.
— Un po’. — Poi, con voce allegra: — Avresti dovuto venire.
— Perché mai? Perché non dovrei confessare che sono stanco di vedere le stesse facce, di compiere gli stessi atti, di fare le stesse sciocche conversazioni? E non sono il solo a pensarlo.
Alla donna sembrò venir meno la voce. — Sei stanco di me?
— Perché… — La figura di Nilsson si sollevò lentamente. — Che cosa c’è, mia cara?
— Non mi hai proprio coperta d’attenzioni, in questi ultimi mesi.
— No? No, forse no. — Picchiò un pugno sul piano del tavolo. — Ero preoccupato.
Jane inspirò profondamente. — Te lo dirò senza mezzi termini. Stasera sono stata con Johann.
— Freiwald? Il macchinista? — Nilsson rimase senza parole per un minuto intero, scandito soltanto dal ronzare dei motori. La donna aspettò. Ormai la sbronza le era passata. Alla fine Nilsson disse, con difficoltà, con lo sguardo rivolto alle dita che tamburellavano: — Be’, ne hai il diritto legale e certamente anche morale. Io non sono un giovane e aitante animale. Io sono… ero… più orgoglioso e felice di quanto sono riuscito a farti capire allorché hai acconsentito a essere la mia compagna. Ho lasciato che tu mi insegnassi molte cose che prima non capivo. Probabilmente non sono stato l’allievo più esperto che chiunque abbia mai avuto.
— Oh, Elof!
— Tu mi lasci, non è così?
— Siamo innamorati, lui e io. — La vista le si fece confusa. — Pensavo che a te importasse molto.
— Non avresti preso in considerazione un prudente… No, la discrezione non è possibile. Inoltre, non ci saresti stata. E, quanto a me, ho il mio orgoglio. — Nilsson si sedette di nuovo e cercò la scatola del tabacco. — Ora è meglio che tu vada. Puoi portar via le tue cose più tardi.
— Così su due piedi?
— Esci! — urlò Nilsson.
La donna fuggì piangendo, ma con passi brevi e nervosi.
La Leonora Christine rientrò nella zona popolata. Passando a cinquanta anni-luce da un gigantesco sole appena nato, attraversò l’involucro di gas che lo circondava. Gli atomi, essendo ionizzati, venivano catturati con la massima efficienza. Il valore di tau piombò verso lo zero asintotico: e, con esso, il suo ritmo temporale.
CAPITOLO DODICESIMO
Reymont si fermò un attimo all’entrata del piano dove si trovavano le stanze destinate alla ricreazione. Apparentemente era deserto e tranquillo. Dopo un’iniziale ondata d’interesse, l’atletica e gli altri passatempi erano diventati via via sempre meno popolari. Fatta eccezione per l’ora dei pasti, sia gli scienziati sia gli uomini dell’equipaggio tendevano ormai a starsene appartati in piccoli gruppi oppure a ritirarsi a leggere, osservare spettacoli registrati su nastro, dormire il più possibile. Reymont poteva costringerli a compiere un minimo prescritto di esercizio fisico, ma non aveva trovato il modo di ridare al loro spirito ciò che i mesi trascorsi gli avevano eroso. A questo proposito egli era più disarmato, perché la sua inflessibile imposizione delle regole basilari gli aveva creato molti nemici.
A proposito di regole… Si incamminò lungo il corridoio fino alla stanza dei sogni e ne aprì la porta. Una luce accesa sopra ognuna delle tre cabine che si trovavano nella stanza dava il segnale di occupato. Estrasse una chiave passepartout dalla tasca e aprì uno spioncino in alto su ogni cabina, che lasciava passare l’aria ma non la luce. Ne richiuse due, ma, giunto al terzo, imprecò. Il corpo disteso, il volto nascosto dal somnelmetto, apparteneva a Emma Glassgold.
Per un po’ Reymont rimase a guardare la piccola donna. Nel sorriso di Emma c’era la pace. Senza dubbio lei, come la maggior parte dei passeggeri di bordo, doveva la sua salute mentale a questo apparecchio. Nonostante gli sforzi compiuti per decorarla, per farne una vera costruzione munita di ogni comfort, la nave era un ambiente troppo sterile. Una totale privazione sensoriale produce quanto prima nella mente umana una perdita di aggancio alla realtà. Privato del flusso di dati tra cui è abituato a destreggiarsi, il cervello vomita allucinazioni, diventa irrazionale e alla fine crolla in uno stato demenziale. Gli effetti di un prolungato impoverimento sensoriale sono lenti, subdoli, ma non per questo meno distruttivi. Una diretta stimolazione elettronica degli opportuni centri encefalici si rende perciò necessaria. Cioè, se si parla in termini neurologici, in termini di emozione immediata, i sogni straordinariamente intensi e lunghi generati dallo stimolo — sia esso di natura piacevole o meno — diventano un sostituto dell’esperienza reale.
Eppure…
La pelle di Glassgold era floscia e aveva un colorito malsano. Il tracciato dell’encefalogramma dietro il somnelmetto diceva che la donna era in condizioni di calma. Ciò voleva dire che poteva essere risvegliata senza correre pericolo. Reymont girò verso il basso l’interruttore dell’apparecchio che regolava il tempo. La traccia oscilloscopica degli impulsi induttivi che stavano agendo nella mente di Glassgold si appiattì e si oscurò.
La donna si mosse. — Shalom, Moshe — Reymont la udì sussurrare. A bordo non c’era nessuno che portasse quel nome. Il poliziotto le sfilò l’elmetto. Emma serrò con violenza le palpebre, vi appoggiò le nocche delle mani e cercò di girarsi dall’altra parte sul lettino dov’era distesa.
— Svegliati. — Reymont la scosse leggermente.
La donna gli rivolse un rapido sguardo tra le palpebre appena socchiuse, e il respiro le si mozzò la gola. Si mise rigidamente a sedere. Reymont poté quasi vedere il sogno che le svaniva da dietro gli occhi. — Vieni — le disse, offrendole la mano per aiutarla ad alzarsi. — Vieni fuori da quella dannata bara.
— Oh, no, no — farfugliò Emma. — Ero con Moshe.
— Mi dispiace, ma…
La donna si accasciò su se stessa singhiozzando. Reymont allora colpì violentemente la cabina, un boato nel mormorio dell’astronave. — Va bene — esclamò. — Ora te lo ordino. Fuori! E va’ a rapporto dal dottor Latvala.
— Che diavolo sta accadendo qui?
Reymont si girò. Norbert Williams doveva averli uditi, perché la porta era rimasta socchiusa, ed egli si trovava poco lontano, in piscina, dal momento che era nudo e bagnato. Era anche furioso. — Ti sei messo a fare il prepotente con le donne, eh? — disse. — E anche con fragili donne. Sparisci.
Reymont rimase dov’era. — C’è un preciso regolamento a proposito di queste cabine — replicò. — Se una persona non dispone dell’autodisciplina necessaria per rispettare tale regolamento, devo obbligarla a farlo.
— Già! Spiando, sbirciando, mettendo il naso nella nostra intimità… perdio, non intendo sopportarlo più a lungo!