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La sua durezza parve abbandonarlo, e Reymont esclamò, pieno d’entusiasmo come un bambino: — Certo, questo è esattamente ciò di cui avremmo bisogno! Un tipo di lavoro affascinante e vitale che chiede tutto ciò che chiunque sia in grado di dare. E quanto alle persone specializzate in materie non strettamente pertinenti, anch’esse parteciperebbero… assistenti, disegnatori, lavoratori manuali… Suppongo che dovremmo sistemare diversamente uno dei ponti della stiva perché possa contenere gli strumenti… Ingrid, è un modo di salvare non soltanto le nostre vite ma anche le nostre menti!

Balzò in piedi. La donna lo imitò. Le loro mani si strinsero convulsamente.

Di colpo si ricordarono di Nilsson. L’astronomo era rimasto seduto e sembrava come rimpicciolito, incurvato, tremante, crollato.

Lindgren gli si avvicinò, allarmata. — Che cosa c’è che non va?

L’uomo non sollevò la testa. — Impossibile — mormorò, — impossibile.

— Certamente no — lo incalzò Ingrid. — Voglio dire, lei non dovrebbe scoprire nuove leggi naturali, non è così? I princìpi basilari sono noti.

— Dovrebbero essere applicati in modi mai sperimentati prima. — Nilsson affondò il viso nelle mani. — Dio lo sa meglio di me, io non sono più in possesso delle mie facoltà mentali.

Lindgren e Reymont si scambiarono un’occhiata al di sopra delle sue spalle ingobbite. La donna formulò silenziosamente con la bocca alcune parole. Una volta Reymont le aveva insegnato il sistema di leggere le labbra utilizzato dal Corpo di Salvataggio quando le radio incorporate nelle tute spaziali non funzionavano più. L’avevano anche messo in pratica tra loro due come un modo per diventare più intimi e più una sola cosa. — Possiamo farcela senza di lui?

— Ne dubito. È il miglior capo che si possa trovare per un progetto del genere. Se non altro, venendo a mancare lui, avremmo poche probabilità di riuscita.

Lindgren si accovacciò accanto a Nilsson. Gli posò un braccio attorno alle spalle. — Qual è il guaio? — gli chiese con voce estremamente dolce.

— Non ho più speranze — rispose Nilsson tirando su col naso. — Nulla per cui vivere.

— Ce l’hai!

— Sai che Jane… mi ha abbandonato… alcuni mesi fa. Nessun’altra donna vorrà… Perché dovrei preoccuparmi? Che cosa mi resta?

Le labbra di Reymont formarono le parole: — Così dietro a tutto c’era soltanto autocommiserazione. - Lindgren si accigliò e scosse la testa.

— No, ti sbagli, Elof — mormorò. — Noi ci preoccupiamo per te. Chiederemmo il tuo aiuto se non ti stimassimo?

— La mia mente. — Si rimise a sedere in una posizione eretta e fissò la donna con gli occhi acquosi. — Voi volete la mia intelligenza, certo. I miei consigli. Le mie nozioni e il mio talento. Per salvare voi stessi. Ma volete me? Pensate a me come… come a un essere umano? No! Sporco vecchio Nilsson. Lo si tratta con niente di più di una formale cortesia. Quando comincia a parlare, si trova la prima scusa possibile per potersene andare. Non lo si invita alle feste nella cabina di qualcuno. Tutt’al più, alla disperata, gli si chiede di fare il quarto a bridge o di impegnarsi in uno sforzo per mettere a punto qualche strumento scientifico. Che cosa vi aspettate che egli faccia? Che vi ringrazi?

— Questo non è vero!

— Oh, non sono infantile come qualcun altro — esclamò l’astronomo. — Vi aiuterei se ne fossi capace. Ma la mia mente è vuota, ve l’ho detto. Sono settimane che non mi viene un’idea originale. Chiamatelo timore della morte, che mi paralizza. Chiamatelo una specie di impotenza. Non mi importa come lo chiamate. Perché neanche a voi importa. Nessuno mi ha offerto amicizia, compagnia, nulla. Sono stato lasciato solo nell’oscurità e nel freddo. Vi meravigliate se la mia mente si è congelata?

Lindgren distolse lo sguardo, celando i sentimenti che si agitavano in lei. Quando si rivolse di nuovo a Nilsson, aveva un’espressione calma.

— Non posso dirti quanto io sia dispiaciuta, Elof — gli disse. — Ma anche tu sei in parte da rimproverare. Ti comportavi in modo così, come dire, autosufficiente che abbiamo pensato che tu non volessi essere seccato. Come Olga Sobieski, per esempio, che non voleva essere disturbata e perciò è venuta a dividere la mia cabina. Quando tu sei andato a stare con Hussein Sadek…

— Tiene il pannello sempre abbassato a dividere le nostre metà — strillò Nilsson. — Non lo alza mai. Ma non è abbastanza a prova di suono e io lo sento e sento le sue ragazze, lì dietro.

— Ora abbiamo capito. — Lindgren sorrise. — Per essere proprio onesta, Elof, mi sono stufata della mia attuale esistenza.

Nilsson emise un suono strozzato.

— Credo che noi abbiamo qualche questione personale da discutere — disse Lindgren. — Le… le dispiace, commissario?

— No — esclamò Reymont. — Naturalmente no. — E uscì dalla stanza.

CAPITOLO QUINDICESIMO

La Leonora Christine imperversò attraverso il nucleo della galassia per ventimila anni. Per coloro che si trovavano a bordo, il tempo fu misurato in ore. Furono ore di terrore, mentre lo scafo si scuoteva e gemeva per la tensione e il panorama esterno mutava dall’oscurità totale a una nebbia resa abbagliante e accecante dai fitti ammassi di stelle. La possibilità di colpire un sole non era trascurabile; nascosto in una nube di pulviscolo, poteva trovarsi di fronte all’astronave in qualsiasi istante (nessuno sapeva che cosa sarebbe accaduto alla stella. Forse sarebbe diventata una nova. Ma certamente il vascello sarebbe stato distrutto, così in fretta che l’equipaggio non avrebbe avuto neanche il tempo di accorgersi di morire). D’altra parte, questa era la regione in cui l’inverso di tau saliva fino a valori che potevano essere soltanto previsti sulla carta, certamente non stabiliti con precisione e assolutamente non compresi.

L’astronave ebbe un attimo di tregua quando attraversò la zona di spazio libero al centro, come una barca che si trovasse nell’occhio di un tifone. Foxe-Jameson guardò nel videoscopio i soli che si accalcavano tutt’intorno — rossi, bianchi e stelle nane, due o anche tre volte più vecchi del Sole e dei suoi dintorni; altri, un’apparizione fugace, completamente diversi nella galassia esterna — e fu sul punto di piangere. — È troppo spaventoso! Qui davanti a noi abbiamo la risposta a un milione di domande e non dispongo di un solo strumento da utilizzare!

I suoi compagni sogghignarono. — Dove avresti pubblicato le tue scoperte? — chiese qualcuno. La speranza che rinasceva si esprimeva spesso sotto forma di un rozzo umorismo.

Ma non si udirono battute di spirito quando Boudreau convocò Telander e Reymont perché conferissero con lui. Ciò avvenne subito dopo che l’astronave era emersa dagli ammassi nebulosi all’estremo lato del nucleo e puntava nuovamente verso il braccio a spirale da cui proveniva. La scena davanti a loro era una palla di fuoco che si andava estinguendo, oltre un’oscurità che cresceva di volume. Eppure i frangenti erano stati superati, il viaggio fino alle galassie della Vergine avrebbe portato via soltanto alcuni altri mesi di vita umana, il programma di ricerche e sviluppo delle tecniche per rintracciare i pianeti adatti era stato annunciato con grande ottimismo. Nelle sale di ricreazione si stava appunto celebrando l’avvenimento con un ballo accompagnato dall’euforia di una leggera sbronza. Le risate, punteggiate e scandite dalla chitarra di Urho Latvala, arrivarono debolmente fino al ponte di comando.

— Forse avrei dovuto lasciarvi divertire come tutti gli altri — esclamò Boudreau. La sua pelle risaltava stranamente giallastra contro i capelli e la barba. — Ma Mohandas Chidambaram mi ha comunicato i risultati dei suoi calcoli in base agli ultimi rilevamenti dopo che eravamo emersi dal nucleo. Ha pensato che io fossi l’individuo più qualificato per valutare le conseguenze pratiche… come se esistesse una gerarchia per la navigazione intergalattica! Adesso è seduto da solo nella sua cabina a meditare. Quanto a me, dopo che mi sono ripreso dallo stordimento, ho pensato che fosse mio dovere informarvi immediatamente.