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— Bene — disse Telander.

Boudreau lo guardò attentamente e rimase sconvolto a quella vista. Dietro l’apparente mancanza di espressione, il volto del capitano era quello di un uomo completamente dissanguato.

Buio. La notte assoluta.

Gli strumenti, utilizzando al massimo grado gli ingrandimenti e gli amplificatori, riconvertendo le lunghezze d’onda, riuscivano a trovare qualche bagliore in quel pozzo. I sensi umani non vi trovavano nulla, nulla.

— Siamo morti. — Le parole di Fedoroff echeggiarono nelle cuffie auricolari e nei crani.

— Io mi sento vivo — replicò Reymont.

— Che cos’altro è la morte se non l’esclusione finale? Niente sole, niente stelle, niente suono, né peso, né ombra… — Il respiro di Fedoroff era ansimante e si sentiva fin troppo chiaramente in una radio che non trasmetteva più il rumore intermittente delle interferenze cosmiche. La sua testa era invisibile contro lo spazio vuoto. La lampada collegata alla sua tuta gettava un’opaca pozza di luce sullo scafo per riflettervisi e perdersi poi in orribili distanze.

— Muoviamoci — sollecitò Reymont.

— Chi sei per dare ordini? — domandò l’altro uomo. — Che cosa sai dei motori Bussard? Perché ti trovi qui fuori con la squadra di manutenzione?

— So cavarmela bene in caduta libera e con la tuta spaziale — gli rispose Reymont, — e così posso mettere a vostra disposizione un altro paio di braccia. So che per noi sarebbe meglio affrettare il lavoro. Cosa che mi pare voi cervelloni non abbiate ancora capito.

— Perché tanta furia? — lo prese in giro Fedoroff. — Abbiamo l’eternità davanti a noi. Siamo morti, ricordatene.

— Saremo davvero morti se verremo presi, con gli schermi di forza spenti, in qualcosa di simile a una reale concentrazione di materia — rispose Reymont. — Ci vorrà meno di un atomo per metro cubico per ucciderci con il nostro attuale tau — che mette il prossimo clan galattico a soltanto poche settimane di distanza.

— E con questo?

— Be’, sei assolutamente certo, Fedoroff, che non colpiremo una galassia, una famiglia, un clan in embrione… qualche enorme nube d’idrogeno, ancora nera, ancora allo stadio di ripiegarsi su se stessa… a ogni istante?

— Ad ogni millennio, vorrai dire — esclamò l’ingegnere capo. Ma, evidentemente riscosso dal suo stato di scoraggiamento, uscì a poppa dal principale portello destinato al personale di bordo. La sua squadra lo seguì.

Era, in verità, uno svolazzare di fantasmi. Non c’era da meravigliarsi che anche lui, che mai era stato un codardo, avesse sentito per un attimo il batter delle ali delle Furie. Chiunque avrebbe pensato allo spazio come a una distesa nera. Ma ora chiunque ricordava che lo spazio era stato pieno di stelle. Forme di ogni tipo si erano stagliate in mezzo ai soli, agli ammassi stellari, alle costellazioni, alle nebulose, alle galassie sorelle; oh, il cosmo era pervaso di luce! Il cosmo interno. Qui era peggio di uno sfondo oscuro, qui non c’era sfondo, non c’era nulla di nulla. Le forme tozze degli uomini nelle loro tute spaziali, che niente avevano di umano, la lunga curva dello scafo, venivano viste come sprazzi, discontinui e fuggitivi. Finita l’accelerazione, era venuto a mancare anche il peso. Non esistevano più nemmeno i leggeri effetti della gravità differenziale che si provavano in orbita. Gli uomini si muovevano come se fossero stati in un sogno infinito in cui nuotavano, volavano, cadevano. Eppure… essi ricordavano che quei loro corpi senza peso reggevano la massa di una montagna. Nel loro fluttuare c’era una reale pesantezza? O erano sottilmente mutate le costanti d’inerzia, qui dove la misura dello spazio-tempo era assottigliata fin quasi a diventare una linea retta? O era un’illusione, deposta nell’immobilità tombale che li ingolfava? Che cosa era illusione? Che cosa realtà? Esisteva la realtà?

Legati insieme da un cavo, attaccati con scarpe magnetiche al metallo dell’astronave (stranamente, spariva l’orrore che si provava al pensiero di essere scagliati lontano — eppure la fine sarebbe stata la stessa se ciò fosse avvenuto nei perduti piccoli spazi del Sistema Solare — ma l’idea di risplendere nel corso di giga-anni come una meteora su scala stellare era peculiarmente desolante), la squadra di ingegneri continuava la sua marcia lungo lo scafo, oltre la struttura a ragnatela dei generatori idromagnetici. Queste centine sembravano terribilmente fragili.

— Supponiamo che non si riesca a fissare il deceleratore a metà del modulo — arrivò una voce. — Proseguiamo? E che cosa sarà di noi? Voglio dire, le leggi non saranno diverse ai confini dell’universo? Non ci troveremo in qualcosa di orrendo?

— Lo spazio è isotropico — ringhiò Reymont nell’oscurità. — È inutile farfugliare di confini dell’universo. E cominciamo a supporre di poter sistemare quella stupida macchina.

Udì alcune imprecazioni e ridacchiò come un cannibale. Quando si fermarono e cominciarono ad assicurare i loro cavi di sicurezza individuali alle travi maestre del motore a ioni, Fedoroff accostò il suo elmetto a quello di Reymont per un colloquio privato in via conduttiva.

— Grazie, commissario — disse.

— Per che cosa?

— Per essere un simile prosaico bastardo.

— Be’, abbiamo un prosaico lavoro di manutenzione da portare a termine. Noi possiamo aver fatto un lungo viaggio, possiamo ormai essere gli unici sopravvissuti della razza che ci ha prodotto, ma non siamo cambiati molto da una varietà di scimmie proboscidate. Perché?

— Hmm. Capisco perché Lindgren abbia insistito affinché ti lasciassi venire con noi. — Fedoroff si schiarì la gola. — Quanto a lei…

— Sì.

— Io… mi sono infuriato… per come la trattavi. Era soltanto questo. Naturalmente, ero, uhm, umiliato personalmente. Ma un uomo dovrebbe passarci sopra. Però di lei mi importava, e molto.

— Non pensarci più — disse Reymont.

— Non posso farlo. Ma forse ora posso capire un po’ meglio di quanto abbia cercato di fare in passato. Anche tu sei stato ferito. E ora, per ragioni sue, lei ci ha lasciato entrambi. Possiamo stringerci la mano e tornare a essere amici, Charles?

— Certo. Anch’io lo volevo. I brav’uomini sono difficili da trovare. — I guantoni andarono a tastoni per trovarsi nelle tenebre e stringersi.

— Va bene. — Fedoroff rimise in funzione il suo apparecchio trasmettitore e si spinse lontano dall’astronave. — Andiamo a poppa a dare un’occhiata al problema.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

La luce cominciò a scintillare davanti a loro, una distribuzione sparsa di punti simili a stelle che crescevano, di numero e in luminosità, fino al massimo splendore. Il loro dominio si estendeva sempre più; in quello stesso momento il videoscopio mostrava che stavano occupando quasi metà del cielo; e quella zona cresceva ancora e diventava più brillante.

A formare quelle strane costellazioni non erano stelle; erano, all’inizio, intere famiglie di galassie che si raggruppavano in clan. Più tardi, mentre l’astronave avanzava, si ruppero in ammassi stellari e infine in membri separati.

La ricostruzione fatta attraverso il videoscopio di questa visione quale sarebbe apparsa a un osservatore fisso era soltanto approssimativa. Dagli spettri ricevuti, un computer calcolava quale dovesse essere la contrazione in base all’effetto Doppler e quindi l’aberrazione, e faceva le rettifiche corrispondenti. Ma non erano altro che valutazioni approssimative.

Si credeva che quel clan si trovasse a circa trecento milioni di anni-luce da casa. Ma non esistevano carte per queste profondità, né standard di misura. La probabilità d’errore nel valore derivato di tau era enorme. Fattori come l’assorbimento non comparivano affatto nel lavoro di riferimento che si faceva a bordo dell’astronave.