— Forse potresti spiegarmelo, se me lo esponessi in modi diversi. — Parlava con voce bassa e calma. — E forse io potrò chiarirti alcune cose. Non sarà facile. Non ti sei mai tolto la tua armatura, Carl. Ma ci proveremo, non è vero? — Sorrise e gli vibrò un leggero colpo sulla coscia che era un fascio di muscoli. — Ma adesso, sciocco, dovremmo essere fuori servizio. Che ne diresti di una nuotata?
La donna si tolse gli abiti. Reymont rimase a osservarla mentre ella si avvicinava a lui. Le piacevano gli sport energici e, dopo, amava indugiare distesa sotto i raggi di una lampada solare. Aveva un corpo dai seni e fianchi pieni, vita sottile, membra lunghe e flessuose, il tutto così abbronzato da mettere in massimo risalto la capigliatura bionda. — Bozhe moi, sei splendida! — esclamò Reymont con voce bassa e soffocata.
Ingrid piroettò su se stessa. — Al tuo servizio, gentile signore… se sei capace di prendermi! — Fece quattro salti che, per la ridotta gravità, la portarono come al rallentatore fino all’estremità del trampolino, poi si tuffò con eleganza. La sua discesa fu lenta come in un sogno, dandole la possibilità di descrivere una specie di balletto nell’aria. Il suo impatto con l’acqua creò un merletto di gocce che sembrarono indugiare in aria.
Reymont entrò in acqua tuffandosi direttamente dal bordo della piscina. Nonostante quell’accelerazione di gravità, nuotare era un’impresa che differiva appena dal normale. La spinta dei muscoli, il freddo e serico fluire dell’acqua sarebbero stati gli stessi finché non fossero giunti al limitare della galassia o anche oltre. Una volta Ingrid Lindgren gli aveva detto che simili verità le facevano dubitare che avrebbe mai realmente provato un empito di nostalgia per la propria patria. La casa dell’uomo era l’intero cosmo.
Quella sera ella si abbandonò a una serie di giochi scherzosi, tuffandosi sotto la superficie dell’acqua, schivando la presa del compagno, sfuggendo alle sue mani ancora e ancora. Le loro risate echeggiavano da una parete all’altra. Quando finalmente Reymont riuscì a bloccarla in un angolo della piscina, la donna gli circondò a sua volta il collo con le braccia, appoggiò le labbra al suo orecchio e sussurrò: — Bene, mi hai presa.
— Mmmm. — Reymont le baciò la cavità tra la spalla e la gola. Nonostante il leggero velo d’acqua che la ricopriva, egli riuscì ad assaporare il profumo di giovane carne viva. — Prendi i vestiti e andiamo.
Poteva reggerne il corpo, che a quella gravità non pesava più di sei chili, con un braccio solo, senza fatica. Quando si trovarono soli nella tromba delle scale, la carezzò con la mano libera. La donna cercò di respingerlo scalciando con i calcagni e ridacchiò: — Lussurioso!
— Ben presto torneremo a un livello di gravità normale — le ricordò Reymont e si lanciò verso il sottostante ponte riservato agli ufficiali a una velocità che, sulla Terra, li avrebbe portati a rompersi il collo da qualche parte.
… Più tardi la donna si sollevò, appoggiata su un gomito, e fissò i suoi occhi in quelli di lui. Le luci nella cabina erano velate. Dietro di lei, tutt’intorno, si muovevano le ombre, facendola sembrare doppiamente dorata e ambrata. Con la punta di un dito seguì lentamente il profilo del compagno.
— Sei un amante magnifico, Carl — mormorò. — Non ne ho mai avuto uno migliore.
— Anche tu mi piaci — replicò Reymont.
Una sfumatura di dolore le contrasse la fronte e la voce. — Ma questa è l’unica volta in cui ti sei lasciato andare realmente. Ed è poi vero, d’altronde?
— Cos’altro credi di trovare in me? — La sua voce era diventata più aspra. — Ti ho raccontato tutto ciò che mi è successo in passato.
— Aneddoti. Episodi. Nessun collegamento, nessun… Là, alla piscina, per la prima volta mi hai dato una pallida idea di che cosa sei. Un barlume il più piccolo possibile e subito cerchi di farlo sparire. Perché? Non voglio certo cercare di capirti intimamente per poi farti del male, Carl.
Reymont si mise a sedere, con un’espressione accigliata. — Non capisco che cosa vuoi dire. La gente impara a conoscersi vivendo insieme. Sai come io ammiri artisti classici come Rembrandt e Bonestell e non sia affatto portato alle astrazioni o alla cromodinamica. Non sono un individuo molto musicale. Ho senso dell’umorismo da caserma. In politica sono un conservatore. Preferisco i tournedos al filetto, ma vorrei poterli gustare entrambi più spesso. Gioco a poker buttandomi allo sbaraglio, o, meglio, lo farei se qualcuno a bordo dell’astronave ci giocasse. Mi piace fare lavori manuali e ci riesco bene, così aiuterò a costruire l’apparato di laboratorio non appena il progetto entrerà in funzione. Attualmente sto tentando di leggere Guerra e pace, ma finisco sempre per addormentarmi. — Vibrò un colpo sul materasso. — Di che cos’altro hai bisogno?
— Di tutto — rispose Ingrid, con voce triste. Fece un gesto che sembrava indicare tutta la stanza. Il suo armadio a muro era aperto, rivelando l’innocente vanità dei suoi abiti. I ripiani erano pieni di tesori privati, fino al limite del peso massimo consentito: una vecchia e consunta copia di Bellman, un liuto, una dozzina di quadri che aspettavano di essere appesi, fotografie più piccole dei suoi parenti, una bambola Hopi… — Tu non hai portato con te niente di personale.
— In tutta la mia vita ho viaggiato senza bagagli.
— E su una strada dura, mi pare. Forse un giorno ti arrischierai a fidarti di me. — Si strinse a lui. — Ora non importa, Carl. Non voglio tormentarti. Voglio che tu venga di nuovo dentro di me. Vedi, il nostro rapporto non è più una questione d’amicizia o di convenienza. Mi sono innamorata di te.
Quando fu raggiunta la velocità appropriata, la Leonora Christine, uscita dalla zona d’influenza terrestre e diretta verso quella costellazione dello Zodiaco dove impera la Vergine, proseguì la sua strada con moto inerziale. Spento l’apparato propulsore, l’astronave divenne una specie di cometa. Soltanto la gravitazione agiva su di essa, dirigendo la sua rotta, diminuendo la sua fretta.
Si era tenuto conto di questo fattore. Ma l’effetto doveva essere contenuto in termini minimi. Le incertezze della navigazione interstellare erano troppe in una simile situazione, senza che venisse aggiunto un fattore extra. Perciò l’equipaggio — gli astronauti professionisti, distinti dal personale scientifico e tecnico — lavorava nei margini di un determinato limite di tempo.
Boris Fedoroff condusse all’esterno dell’astronave una squadra di tecnici specializzati. Il loro lavoro era delicato e complesso. Bisognava essere molto esperti per lavorare in condizioni di imponderabilità e non stancarsi eccessivamente nel cercare di controllare corpo e strumenti. Anche gli uomini migliori potevano lasciarsi sfuggire la presa delle loro calzature magnetiche dallo scafo dell’astronave e in tal caso sarebbero volati via fluttuando, bestemmiando in preda alla nausea prodotta dalle forze rotatorie, fino ad arrivare alla fine del cavo che li teneva legati alla nave e che avrebbe permesso loro di tornare indietro. La luce era scarsa: al sole, un chiarore non schermato; all’ombra un buio nero come l’inchiostro tranne le pozzanghere di luce non diffusa che venivano emesse dalle lampade attaccate agli elmetti. Anche per quanto riguardava l’udito la situazione non era migliore. Si aveva difficoltà a far giungere le parole attraverso il rumore prodotto dal respiro affannoso e dal sangue che pulsava, quando si era confinati in una tuta spaziale, o attraverso il ribollire del cosmo nelle cuffie radio. Per mancanza di una purificazione dell’aria paragonabile a quella dell’astronave, le perdite gassose venivano rimosse in modo imperfetto. Si accumulavano per ore ed ore finché ci si trovava a lavorare in una nebbia di sudore, vapore acqueo, biossido di carbonio, solfuro d’idrogeno, acetone… e gli indumenti intimi aderivano fradici alla pelle… e si guardava verso le stelle con gli occhi stanchi attraverso lo schermo di protezione del viso, con il mal di testa che attanagliava le tempie.