— Pensavo che fosse il nome del capitano. In questo caso ti saresti già trovata il soprannome.
— Statti accorto, o ti farò fare una passeggiata fuori bordo.
— E a questa che nome diamo, Rocky? — chiese Bill.
— Ehi, dovremmo darle un nome, vero? Ho perso tanto tempo a cercare lo champagne per il varo che me ne sono scordata.
— Non parlarmi di champagne — brontolò Gaby.
— C’è qualche suggerimento? C’è in ballo una promozione.
— Io so che nome le avrebbe dato Calvin — disse Bill.
— Non parlarmi di Calvin.
— A parte lui, finora abbiamo usato sempre la mitologia greca. Questa barca dovrebbe chiamarsi Argo.
Cirocco era dubbiosa. — Era in quella storia del vello d’oro, no? Mi ricordo il film.
— Ma noi non cerchiamo niente — disse Gaby. — Sappiamo benissimo dove vogliamo arrivare.
— E allora… — Bill si mise a riflettere. — Pensavo a Ulisse. La sua nave aveva un nome?
— E chi lo sa? Il nostro esperto di mitologia se n’è andato con quel pallone gonfiato. Comunque l’idea non mi va. Ulisse ha avuto solo un sacco di guai.
Bill ghignò: — Superstiziosa, Comandante? Non l’avrei mai creduto.
— E allora io voto per chiamare Titanic la nostra barca. Mi pare che sia un nome più che adatto a te.
— Già, una nave che è colata a picco subito.
— Titanic mi piace — disse Gaby. — Anche se questo è solo un enorme guscio di noce.
Cirocco alzò gli occhi, pensosa. — Così sia, dunque. Vada per Titanic. E che il viaggio sia lungo e fortunato.
L’equipaggio lanciò tre urrà, e Cirocco s’inchinò con un sorriso.
— Lunga vita al capitano — urlò Gaby.
— Ehi — disse Cirocco — non dovremmo dipingere il nome sul parabordo o quello che è?
— Sul cosa? — Gaby aveva un’aria terrorizzata.
— Tanto vale che ve lo dica. Di imbarcazioni non so proprio niente. C’è qualcuno che è pratico di navigazione?
— Io, un po’ — rispose Gaby.
— Allora ti nomino pilota. Vieni a prendere il mio posto.
Cirocco lasciò il timone, si stese sul fondo del baccello, mise le mani sotto la testa e chiuse gli occhi. — Devo prendere decisioni importantissime — disse, con uno sbadiglio. — Nessuno mi disturbi, a meno che non scoppi un uragano. — Si addormentò tra un coro di strepiti.
Il Clio era lungo, serpeggiante, lento. Al centro del fiume, i loro remi lunghi quattro metri non toccavano il fondo. Se li mettevano in acqua, sentivano cose che andavano a sbatterci contro. Non seppero mai di cosa si trattasse. Tennero il Titanic a metà strada fra il centro del fiume e la riva.
Cirocco aveva deciso che era meglio rimanere a bordo e sbarcare solo per procurarsi il cibo, un progetto che visse non più di dieci minuti.
Spesso l’imbarcazione si incagliava, e tutti e tre dovevano mettersi al lavoro per districarla dai fondali bassi. Impararono presto che il Titanic non era molto manovrabile. Occorrevano due persone ai remi per tenerla lontana dalle secche, mentre dovevano intervenire tutt’e tre, svegliando chi stava eventualmente dormendo, per disincagliarla dai fondali fangosi.
Decisero di accamparsi a riva più o meno ogni venti ore. Cirocco studiò i turni in modo che due di loro fossero sempre svegli mentre navigavano, e uno quando erano a terra.
Date le continue anse del fiume, a volte percorrevano pochissima distanza, magari solo mezzo chilometro in linea d’aria in un giorno. Avrebbero anche perso l’orientamento, se non ci fosse stato il cavo di sostegno che partiva da terra al centro di Iperione. Cirocco sapeva, dall’esplorazione aerea, che era molto lontano dal fiume Ofione.
Rappresentava il loro est, ed era sempre lì, immobile come un grattacielo mostruoso, ingoiato alla fine dalla volta ricurva. Cirocco sperava di potergli dare un’occhiata da vicino.
Dopo un po’, impararono a governare l’imbarcazione senza nemmeno avere bisogno di parlarsi. L’unica cosa importante era stare attenti alle secche. Gaby e Bill passavano quasi tutto il tempo ad abbellire i vestiti, lavorando con aghi di spine vegetali. Bill, inoltre, cercava di rendere sempre più confortevole l’interno del baccello.
Cirocco passava il tempo a sognare a occhi aperti, immaginando le difficoltà che avrebbero incontrato all’interno del mozzo. Ma erano fantasticherie inutili, dato che non possedeva nessun elemento concreto.
Alla fine, si decise a cantare, cogliendo gli altri di sorpresa. Nessuno sapeva che possedesse una bella voce e un’ottima educazione musicale, in quanto aveva preso lezioni di piano e di canto per una decina d’anni, avendo fra i suoi programmi la carriera di cantante finché non aveva prevalso l’amore per lo spazio. Bill e Gaby restarono sbalorditi; ma cantare assieme li avvicinò ancora di più. Era bravissima in particolare con le vecchie canzoni folk, le ballate, e le canzoni di Judy Garland.
Bill costruì un liuto da un guscio di noce, pezzi di paracadute e la pelle di un sorrisone, e imparò a suonarlo. Gaby si dedicò a una batteria ottenuta anch’essa da un guscio di noce. E cantavano e suonavano tutti assieme. Gaby era un passabile soprano, e Bill una specie di tenore.
Una canzone in particolare diventò il loro inno preferito: parlava di una strada di mattoni gialli e del meraviglioso mago di Oz. La urlavano ogni mattino quando ripartivano, in risposta ai suoni della foresta.
Passarono diverse settimane prima che raggiungessero l’Ofione. In tutto quel tempo, si verificarono soltanto due incidenti.
Il primo avvenne il terzo giorno di viaggio, quando un occhio appeso a un lungo penducolo emerse dall’acqua a non più di cinque metri dal Titanic. Era un occhio, senza dubbio, formato da un bulbo di venti centimetri di diametro inserito in un’orbita verde, flessibile, che a prima vista sembrava una mano con le dita arrotolate attorno all’occhio da dietro. Il bulbo era di un verde più chiaro, con una membrana mobile.
Raggiunsero immediatamente la riva. L’occhio guardava proprio loro, senza tradire né interesse né emozioni; era solo uno sguardo fisso. Non diede importanza alla loro fuga precipitosa. Restò a guardarli per un paio di minuti, poi scomparve con tutta calma.
Una volta a riva discussero dell’accaduto e stabilirono che c’era ben poco che potessero fare in casi del genere. La creatura non aveva compiuto atti ostili nei loro confronti, anche se non potevano avere alcuna certezza sulla sua futura condotta. Comunque, decisero che non potevano interrompere la navigazione solo perché nel fiume c’erano pesci giganteschi. Col passare del tempo ne videro molti altri, e si abituarono. Quegli occhi somigliavano talmente a periscopi che Bill soprannominò quei pesci U-boat.
Il secondo incidente li trovò più preparati, perché era già successo. Era il vento foltissimo che Calvin aveva chiamato Lamento di Gea.
Fecero in tempo a portare a riva l’imbarcazione e a nascondersi sotto il baccello. Cirocco non volle andare a ripararsi sotto gli alberi, perché ricordava bene quel grosso ramo che le era caduto accanto spaventandola moltissimo.
Le condizioni di osservazione non erano ideali, ma Cirocco riuscì a dare un’occhiata. La tempesta si addensò dal cielo sopra Oceano. Le nubi scesero dal grande raggio sopra il mare ghiacciato come il fiato gelido di un dio. I venti colpirono lo strato di ghiaccio e lì si spezzarono, dando origine a uragani che da quella distanza sembravano minuscoli ma dovevano essere enormi.
Attraverso le nubi che avanzavano rapidamente verso Iperione, Cirocco riuscì a vedere i cavi di supporto inclinati che si protendevano al di sopra di Oceano. Da quella distanza non riusciva a capire bene, ma l’impressione era che rimanessero praticamente immobili, anche se era possibile che avessero qualche lieve ondeggiamento. Dai cavi usciva una nebbia fine, grigia, che cadeva a terra. Data la distanza, le particelle che la componevano dovevano essere grandi quanto alberi. Poi le nubi oscurarono la visuale, e cominciò a cadere la neve. Le acque del fiume si agitarono e si alzarono sin quasi a raggiungere il Titanic. A Cirocco sembrò di sentire il terreno tremare.