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Dopo un po’ si ritrovò distesa sull’erba, con la faccia di Gaby china su di lei. Gaby piangeva. Le passò dolcemente le mani sulla testa, poi sul petto.

— Ahi! — Cirocco sussultò al dolore improvviso. — Devi avermi rotto una costola.

— Oh, Dio! Quando ti ho presa su? Scusa, Rocky, io…

Cirocco le sfiorò una guancia. — No, cara. Quando mi hai tirato quel pugno tremendo. E sono felice che tu mi abbia colpito.

— Voglio dare un’occhiata agli occhi. Credevo che ti…

— Non c’è tempo. Aiutami a tirarmi su. Dobbiamo vedere come sta Bill.

— Prima tu. Resta sdraiata. Non dovresti…

Cirocco allontanò la mano di Gaby, riuscì a mettersi in ginocchio, poi si piegò in due e vomitò.

— Vedi? Devi restare qui.

— D’accordo — boccheggiò Cirocco. — Vallo a prendere. Portamelo qui, vivo.

— Lasciami vedere i tuoi…

— Va’!

Gaby si morse le labbra, distrutta. Guardò il pesce che si agitava ancora, lontano. Poi corse in quella che sperava fosse la direzione giusta.

Lei restò lì a imprecare finché Gaby non tornò.

— È vivo, svenuto, e penso che sia ferito.

— È conciato male?

— Ha sangue su una gamba, sulle mani e sulla fronte. Un po’ è sangue del pesce.

— Ti avevo detto di portarlo qui — disse Cirocco, scossa da un’altra serie di conati.

— Zitta — sussurrò Gaby, passandole la mano sulla fronte. — Non posso spostarlo senza una barella. Ora ti riporto sulla barca e ti metto comoda. Zitta! Se occorre ti do un altro pugno, sai?

Cirocco aveva l’aria di essere lei a voler tirare un pugno a qualcuno, ma la nausea sommerse qualsiasi altro desiderio. Si sistemò sul terreno e Gaby la prese in spalla.

Le venne da ridere pensando a quanto ridicole dovevano sembrare: lei era alta un metro e ottanta, e Gaby un metro e mezzo solamente. Ma il peso non costituiva un problema con quella gravità, bastava solo muoversi con cautela.

A occhi chiusi, il mondo non girava più su se stesso. — Grazie per avermi salvato la vita — disse Cirocco, e svenne.

Tornò in sé alle urla di un uomo. Un suono orrendo che si augurò di non dover mai risentire. Bill era in stato di semincoscienza. Cirocco si mise a sedere, si toccò la testa: le doleva, però ci vedeva bene.

— Vieni a darmi una mano — disse Gaby. — Dobbiamo tenerlo fermo, o si farà male.

Corse a fianco di Gaby. — Come sta?

— Male. Ha una gamba rotta, e forse anche qualche costola, ma per ora non ha sputato sangue.

— Dov’è la frattura?

— Si è rotto la tibia o la fibula, non so bene. Credevo che fosse solo una lacerazione, poi si è agitato ed è spuntato fuori l’osso. Comunque non perde molto sangue.

Cirocco sentì di nuovo stringersi lo stomaco quando guardò la ferita alla gamba di Bill. Gaby la ripuliva con stracci bolliti. Ogni volta che lo toccava, Bill urlava, rauco.

— Cosa hai intenzione di fare? — chiese Cirocco, ricordando vagamente che avrebbe dovuto essere lei a dare ordini.

— Credo che dovremmo chiamare Calvin — rispose Gaby, annichilita.

— E perché? Oh, certo che lo chiamo quel brutto bastardo, ma hai visto quanto tempo ha impiegato l’altra volta ad arrivare. Se nel frattempo Bill muore, lo ammazzo.

— Allora dobbiamo pensarci noi.

— Sei capace?

— L’ho visto fare una volta. Sotto anestesia.

— E quello che abbiamo è un mucchio di stracci che possiamo solo sperare che siano puliti. Io lo terrò per le braccia. Aspetta un attimo. — Si portò a fianco di Bill. Gli occhi dell’uomo fissavano il vuoto, la fronte scottava.

— Bill? Stammi a sentire. Sei ferito, Bill.

— Rocky?

— Sono io. Andrà tutto bene, ma hai una gamba rotta. Capisci?

— Capisco — sussurrò lui, e chiuse gli occhi.

— Bill, svegliati. Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Mi senti?

Lui alzò la testa e guardò la gamba. — Sì — disse, asciugandosi la fronte con la mano. — Starò buono. Ma sbrigatevi, per favore.

Cirocco annuì a Gaby, che fece una smorfia e diede il primo colpo.

Occorsero tre tentativi, che le svuotarono completamente. Al secondo, l’osso uscì dalla ferita con un rumore molliccio che fece vomitare ancora Cirocco. Bill sopportò bene, non urlò più, ma i tendini del collo erano tesi come corde.

— Vorrei sapere se abbiamo fatto un buon lavoro — disse Gaby, poi cominciò a piangere. Cirocco appoggiò l’asticella sulla ferita e la legò. Bill perse conoscenza.

Le mani di Cirocco erano piene di sangue. — Dobbiamo andarcene — disse. — Dobbiamo trovare un posto che non sia umido, accamparci e aspettare che si ristabilisca.

— Probabilmente non dovremmo spostarlo.

— No — sospirò Cirocco. — Ma sarà necessario. In un giorno dovremmo arrivare a quella terra che abbiamo visto da lontano.

13

Ci vollero due giorni, anziché uno, e furono terribili.

Si fermarono spesso a sterilizzare le bende di Bill. La ciotola che usavano per scaldare l’acqua funzionava in modo molto approssimativo, e l’acqua impiegava quasi un’ora a bollire, perché su Gea la pressione era superiore a un’atmosfera.

Gaby e Cirocco dormivano a turno, per poche ore, quando il fiume era tranquillo. Ma spesso dovevano spingere tutte e due l’imbarcazione per non incagliarsi.

Continuava a piovere regolarmente.

Bill si svegliò dopo ventiquattro ore. Sembrava invecchiato di cinque anni. La sua faccia era grigia e quando Gaby gli sostituì il bendaggio la ferita non aveva un bell’aspetto. La parte inferiore della gamba e metà del piede erano grandi il doppio del normale.

Dopo un po’ fu preso dal delirio, con una febbre altissima che lo faceva sudare copiosamente.

All’inizio del secondo giorno Cirocco lanciò il solito richiamo a un aerostato di passaggio, ma cominciava già a temere che fosse troppo tardi. Lo guardò volare tranquillamente sopra il mare ghiacciato, e si chiese perché avesse insistito per lasciare la foresta, oppure perché mai anche lei non avesse voluto chiudersi nel ventre di Finefischio, anziché affrontare cose orribili come quei pesci che si rifiutavano di morire.

I motivi che l’avevano spinta a quella decisione erano sempre validi; ma era stanca di sopportare quel peso. Gaby non poteva volare nei dirigibili e dovevano trovare un’altra soluzione. Come sarebbe stato più semplice, più soddisfacente abbandonare ad altri le responsabilità di tutte quelle vite e in più, si sentiva infelice anche per la propria esistenza. Perché mai aveva pensato di voler fare il capitano? Cosa aveva fatto di buono da quando aveva assunto il comando del Ringmaster?

In realtà voleva una cosa semplicissima, ma difficile da trovare. Voleva amore, come chiunque altro. Bill aveva detto di amarla; perché non riusciva a dirglielo anche lei? Aveva sperato di riuscirci, un giorno, ma adesso lui stava morendo, ed era colpa sua.

E poi voleva l’avventura. L’aveva inseguita per tutta la vita, dal primo albo a fumetti che aveva avuto per le mani, dal primo documentario sullo spazio che aveva guardato con gli occhi sbarrati dell’infanzia, dal primo western spaccone in bianco e nero che aveva visto. La voglia di fare qualcosa di eroico e violento non l’aveva mai lasciata. L’aveva aiutata a sopravvivere alla carriera di cantante che sua madre aveva pianificato per lei e al ruolo di casalinga che molti avrebbero voluto imporle. Quello che voleva era piombare all’improvviso sul covo dei pirati spaziali, i laser lampeggianti, oppure strisciare furtiva nella giungla con una banda di fieri rivoluzionari per un attacco notturno a una fortezza nemica, oppure partire alla ricerca del Santo Graal o distruggere la Stella della Morte. Da adulta aveva trovato altri motivi per lavorare con tenacia al college e costringersi a essere sempre la migliore in attesa che la sorte la favorisse, perché loro non potessero scegliere nessun altro per la missione su Saturno. Dietro a tutto quello, comunque, c’era la voglia di viaggiare e vedere posti strani e fare cose che nessun altro aveva mai fatto, e questo l’aveva portata fino al ponte di comando del Ringmaster.