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– Forse ci conviene sederci sul pavimento – dichiarai. – Comincio ad avere il braccio stanco.

La ragazza diede un'altra risatina e si sciolse agilmente dall'abbraccio.

– Penserete che io sia stata baciata un'infinita di volte – mormoro.

– E quale ragazza non lo e stata?

Lei accenno di si, e mi lancio un'occhiata dal sotto in su, in modo che le ciglia le ombreggiassero l'iride.

– Anche alle feste di parrocchia si fanno dei giochi di societa che finiscono con un bacio – disse.

– Altrimenti non ci andrebbe nessuno – replicai.

Ci guardammo un istante, senza nessuna espressione particolare.

– Be-e-e-ene… – comincio finalmente la ragazza. Le restituii gli occhiali e lei se li infilo. Aperse la borsa, si guardo in uno specchietto, poi frugo nell'interno e ne trasse il pugno chiuso.

– Mi spiace d'essere stata cattiva – affermo, e fece scivolare qualcosa sotto la cartella della scrivania. Mi regalo un altro breve, fragile sorriso, poi si diresse alla porta e l'aperse. – Vi telefonero – promise in tono d'intimita. E se ne ando tacchettando lungo il corridoio.

Tornai alla scrivania, sollevai la cartella e lisciai le banconote accartocciate. Non era stato gran che, come bacio, ma a quanto pareva mi si offriva un'altra opportunita di metter le mani su quei venti dollari.

Il telefono squillo prima che io cominciassi a preoccuparmi seriamente del signor Lester B. Clausen. Alzai il ricevitore con un gesto assente. La voce che udii era spiccia e decisa, ma mi giungeva rauca e soffocata, come se dovesse farsi strada attraverso una tenda o una lunga barba bianca.

– Marlowe?

– In persona.

– Avete una cassetta di sicurezza, Marlowe?

Ne avevo abbastanza di far l'educato, per quel pomeriggio.

– Smettetela di chiedere e cominciate a spiegare – dissi.

– Vi ho rivolto una domanda, Marlowe.

– E io non ho risposto – replicai. – Cosi. – Premetti con una mano la forcella del telefono, e la tenni abbassata, mentre con l'altra cercavo una sigaretta. Sapevo che avrebbe richiamato. Sempre, lo fanno, quando credono di essere tipi duri. Non hanno avuto modo di pronunciare la loro battuta d'uscita. Quando il telefono suono di nuovo cominciai immediatamente a parlare.

– Se avete una proposta da farmi fatela. E fin che non mi avete dato quattrini chiamatemi "signor Marlowe".

– Non lasciatevi trasportare dai nervi amico. Sono in un pasticcio. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno che mi teniate al sicuro una certa cosa. Solo per pochi giorni. E in cambio voi guadagnerete alla svelta una piccola somma.

– Quanto piccola? – M'informai. – E quanto alla svelta?

– Un centone. E qui che vi aspetta. – Sto tenendovelo in caldo.

– Lo sento che fa le fusa – dissi. – E dove mi aspetta?

Era come se ascoltassi quella voce due volte: una volta mentre mi parlava, una volta mentre risuonava nei miei ricordi.

– Camera 32. Terzo piano. Albergo Van Nuys. Bussate: due colpi brevi e due lunghi. Non troppo forte. Ho bisogno di un lavoro spiccio. Quando potete…

– Che cosa volete darmi in custodia?

– Lo saprete quando verrete qui. Vi dico che ho fretta.

– Come vi chiamate?

– Camera trentadue e sufficiente.

– Grazie della compagnia – dissi. – Addio.

– Ehi un momento! Non e quel che pensate voi. Niente di compromettente: ne brillanti ne pendenti di smeraldi. E solo una cosa che per me vale un sacco di soldi, e per gli altri non ha nessun valore.

– L'albergo ha una cassaforte.

– Volete morire povero, Marlowe?

– E perche no? Rockefeller e pur finito cosi. Di nuovo addio. La voce muto. Perse la velatura di raucedine, e disse rapidamente, in tono aspro: – Come vanno le cose, a Bay City?

Non parlai. Rimasi in attesa. Lungo il filo venne una risatina chioccia, sommessa.

– Lo pensavo che questo vi avrebbe interessato, Marlowe. Camera trentadue. Spicciatevi, amico. Venite a rotta di collo.

Udii uno scatto metallico. Riappesi anch'io. Senza nessuna ragione una matita rotolo giu dal piano di vetro e si spezzo la punta sull'aggeggio di cristallo sotto un piede della scrivania. La raccolsi lentamente, con la massima cura, l'appuntii di nuovo al temperamatite automatico avvitato all'intelaiatura della finestra; girandola e rigirandola, per ottenere una punta acuminata e precisa. Poi la deposi nel vassoietto sullo scrittoio, e mi pulii le mani. Avevo tutto il tempo del mondo. Guardai fuori dalla finestra. Non vidi niente. Non udii niente.

Poi, ancora a minor ragione, vidi il viso di Orfamay Quest, senza occhiali, dipinto, rifinito, i capelli biondi, rialzati sulla fronte e una crocchia di trecce, in mezzo alla testa. E gli occhi da alcova. Tutte, pare che debbano averli, quegli occhi. Cercai di immaginare quel viso in un primissimo piano, divorato da un virile campione degli spazi sconfinati del bar di Romanoff.

Ci misi ventinove minuti, per arrivare all'albergo Van Nuys.

CAPITOLO VIII

Una volta, parecchi anni prima, il Van Nuys doveva aver avuto un certo stile. Ma ora non piu. Le memorie dei vecchi sigari defunti rimanevano fedeli al vestibolo, come le dorature sudice al soffitto e le molle ciondolanti alle ampie poltrone di cuoio. Il marmo del banco era diventato giallobrunastro, col tempo. Ma il tappeto, sul pavimento, era nuovo e aveva un'aria dura, coriacea, come l'impiegato del bureau. Scartai l'impiegato, mi avvicinai pigramente al chiosco dei tabacchi, in un angolo, e deposi una moneta da un quarto di dollaro sul banco, per un pacchetto di Camel. La commessa era una bionda-paglia, col collo lungo e gli occhi stanchi. Mi porse le sigarette, aggiunse un pacchetto di cerini e lascio cadere il resto nella fessura d'una cassettina con la scritta: "Il Fondo della Comunita vi ringrazia".

– Voi volevate che lo facessi, vero? – chiese con un sorriso paziente.

– Senz'altro volevate regalare i vostri spiccioli ai poveri bambini diseredati con le gambe storte e tanti altri mali, vero?

– E se non avessi voluto? – chiesi.

– Ripescherei i sette centesimi – spiego la ragazza. – E sarebbe molto penoso. – Aveva una voce bassa e lenta, umidamente carezzevole, come un asciugamani bagnato. Infilai un quarto di dollaro, dietro ai sette centesimi. La ragazza mi gratifico del suo sorriso piu smagliante, allora, offrendomi una prospettiva ancor piu vasta delle sue tonsille.

– Siete una brava persona – disse. – Si vede subito. Una quantita di giovanotti sarebbero entrati qua dentro e avrebbero tentato di fare gli sporcaccioni. Pensate un po'. Per sette centesimi.

– Chi e il poliziotto dell'albergo? – le domandai, senza accogliere l'implicito invito.

– Ce ne sono due. – La ragazza compi un'operazione imprecisata, ma lenta ed elegante, nei paraggi della nuca, mettendo in mostra un numero che mi parve esorbitante di unghie rosso-sangue.

– Il signor Hady di notte, e il signor Flack di giorno. Adesso e giorno, quindi dev'essere di servizio il signor Flack.

– Dove potrei trovarlo?

La commessa si chino sul banco, permettendomi di odorarle i capelli, e indico il gruppo degli ascensori con un'unghia lunga un paio di centimetri.

– Ha l'ufficio in quel corridoio, laggiu, vicino alla stanza del custode. La stanza del custode dovete notarla per forza perche ha una porta a due battenti, con sopra scritto "Custode" a lettere d'oro. Solo che adesso un battente e aperto, quindi forse non la potete vedere.

– La vedro – l'assicurai. – A costo di scardinarmi il collo. Che aspetto ha Flack?

– Be'… e un ometto tozzo, coi baffi. Tipo tarchiato. Robusto, ma non molto alto. – Le sue dita si mossero languidamente sul banco e si fermarono in un punto dove avrei potuto arrivare a toccarle senza fare i salti mortali. – Non e interessante. Perche occuparsene?

– Affari – spiegai, e me la battei, prima che mi agguantasse con una presa di lotta.

Quando arrivai agli ascensori mi voltai. La commessa mi seguiva con lo sguardo, con un'espressione che, senza dubbio, lei avrebbe definito pensosa.

La stanza del custode era a meta del corridoio che dava su Spring Street.