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– Vi daro una ricevuta – dissi.

– Non mi occorre una ricevuta, signor Marlowe.

– Ma a me si. Non volete darmi il vostro indirizzo, percio ho bisogno di qualcosa con la vostra firma.

– Per che farne?

– Per dimostrare che vi rappresento. – Presi un blocco di ricevute, compilai un modulo, e le porsi il libretto, per farle firmare il duplicato. Lei non ci teneva affatto. Dopo un momento prese la matita, con riluttanza, e scrisse "Orfamay Quest" con una grafia ordinata, da segretaria, attraverso la facciata del duplicato.

– Sempre niente indirizzo? – domandai.

– Preferirei di no.

– Telefonatemi quando volete, allora. Sulla guida c'e anche il mio numero di abitazione. Casa-albergo Bristol. Appartamento ventotto, quarto piano.

– Non e molto probabile che venga a farvi visita – dichiaro lei, freddamente.

– Non ve l'ho ancora chiesto – le feci osservare. – Chiamatemi verso le quattro, se vi fa comodo. Puo darsi che abbia qualche notizia, puo anche darsi di no.

La ragazza si alzo.

– Spero che mamma non pensi che ho fatto male – disse, tormentandosi un labbro, ora, con un'unghia pallida. – A venir qui, intendo.

– Non mi elencate altre cose che a vostra madre non piacciono – l'invitai. – Tirate un pietoso velo, su questo punto.

– Ma dico!

– E smettetela di dire: "Ma dico!".

– Per me, siete un individuo estremamente villano.

– Non e vero niente. Voi pensate che sono molto carino. Non credete che io faccia questo lavoro per i venti dollari, vero?

A un tratto mi lancio un'occhiata fredda, decisa.

– E allora perche? – poi, quando vide che non rispondevo soggiunse:

– Perche c'e la primavera nell'aria?

Continuai a tacere. Lei arrossi lievemente. Poi diede una risatina.

Non ebbi cuore di dirle che ero semplicemente stufo di non far nulla.

Forse era anche la primavera. E qualcosa, nei suoi occhi, che era molto piu antico di Manhattan, Kansas.

– Mi siete molto simpatico… davvero – mormoro, poi si volto di scatto, e quasi corse fuori dall'ufficio. I suoi passi, nel corridoio esterno facevano un rumorino secco, ritmato, come mamma che tamburella le dita sul bordo della tavola da pranzo, quando papa lavora di diplomazia per conquistarsi una seconda fetta di pasticcio. E lui senza piu un soldo. Senza piu nulla. Semplicemente seduto su una sedia a dondolo, sotto il portico verso strada, laggiu a Manhattan, Kansas. A dondolare, sotto il portico verso strada, con calma, lentamente, perche quando si e avuto un colpo bisogna prendere le cose con calma, lentamente. E aspettare il prossimo colpo. E in bocca la pipa vuota. Niente tabacco. Niente. Solo aspettare.

Infilai i venti dollari di Orfamay Quest, guadagnati con tanto sudore, in una busta, ci scrissi il suo nome sopra e la lasciai cadere in un cassetto della scrivania. Non mi garbava l'idea di andarmene in giro con tanto danaro addosso.

CAPITOLO III

Si puo conoscere Bay City da molto tempo senza conoscere Idaho Street. E si puo conoscere molto bene Idaho Street senza conoscere il numero 449. L'asfalto della via, davanti al portone, era tutto corroso e mostrava la terra. La staccionata sbilenca di un magazzino di legname costeggiava il marciapiedi pieno di crepe, all'altro lato della strada. Piu avanti, circa a meta dell'isolato, le rotaie rugginose di un binario di servizio svoltavano verso un alto cancello di legno, bloccato da una catena, che aveva l'aria di non essere stato aperto da vent'anni. I ragazzini avevano riempito di scritte e di disegni i battenti del cancello e tutta la staccionata.

Il numero 449 aveva un portico poco profondo, di legno grezzo, sotto il quale quattro o cinque sedie a dondolo di vimini e legno oziavano con aria dissoluta, tenute insieme dallo spago e dall'umido dell'aria marina. Gli avvolgibili verdi delle finestre a pianterreno erano abbassati per tre quarti, e pieni di spiragli. Accanto alla porta d'ingresso c'era un grande avviso, a stampatello: Tutto esaurito. Anche quello era la da molto tempo. Era sbiadito e pieno di macchie di mosche. La porta si apriva su un lungo vestibolo, in fondo al quale partiva una rampa di scale. Sulla destra c'era uno stretto scaffale con vicino una matita copiativa appesa al muro per una catenella. C'era il pulsante di un campanello e, sopra di esso, un cartellino giallo e nero che diceva: Direttore era attaccato con tre puntine da disegno scompagnate. Sul muro di fronte c'era un telefono a gettone.

Premetti il pulsante. Il campanello suono, in un punto imprecisato, ma non accadde nulla. Suonai di nuovo. Di nuovo non accadde nulla. Avanzai lentamente verso una porta con un cartellino di metallo bianco e nero… Direttore. Bussai. Poi la presi a calci. Parve che nessuno se ne avesse a male, per le mie pedate.

Tornai ad uscire e mi avviai verso il fianco della casa, dove un sentierino di cemento conduceva a un ingresso di servizio. Mi parve che fosse nel punto giusto, per esser quello dell'appartamento del direttore. Il resto dell'edificio doveva esser composto esclusivamente di stanze d'affitto. Sotto il piccolo portico c'erano una pattumiera sudicia e una cassetta di legno piena di bottiglie di liquore. La porta posteriore oltre la grata era aperta. Dentro era buio e tetro. Appoggiai la faccia alla grata e spiai nell'interno. Attraverso l'uscio, oltre il portico di servizio scorgevo una sedia da cucina con una giacca da uomo appesa alla spalliera. E sul sedile c'era un uomo in maniche di camicia, col cappello in testa. Un tipo piuttosto piccolo e smilzo. Non riuscivo a vedere quel che stava facendo ma mi parve che fosse seduto a un tavolo a muro, nell'"angolo della prima colazione".

Bussai sulla grata. L'uomo non se ne diede per inteso. Bussai di nuovo, piu forte. Questa volta lo sconosciuto inclino la sedia all'indietro e mi lascio vedere un viso pallido, con una sigaretta piantata in bocca.

– Cosa volete? – latro.

– Il direttore.

– Non c'e, bel giovane.

– Voi chi siete?

– Che ve ne importa?

– Voglio una stanza.

– Tutto esaurito. Non sapete leggere?

– Io avrei informazioni diverse – dichiarai.

– Davvero? – L'uomo fece schizzar via la cenere dalla sigaretta con l'unghia, senza nemmeno togliere il mozzicone dalla piccola bocca triste.

– E allora prendetevi le vostre informazioni e andate al Limbo.

Raddrizzo la sedia e torno a fare quel che stava facendo.

Io feci parecchio rumore scendendo dal portico e nessun rumore risalendovi. Tastai la grata, con attenzione. Era chiusa con un gancio. Con la lama d'un temperino sollevai l'uncino e lo sfilai dall'occhiello. Tintinno un poco, ma dalla cucina venivano altri tintinnii, piu forti.

Entrai, attraversai il portico di servizio e varcai la soglia della cucina.

L'ometto era troppo indaffarato per accorgersi di me. Il locale conteneva un fornello a gas a tre fuochi, qualche scaffale carico di piatti unti, una ghiacciaia di legno e l'angolo della prima colazione. Il tavolo a muro era coperto di danaro. Eran quasi tutti biglietti di banca, ma c'erano anche monete di tutte le dimensioni, fino a un dollaro. L'ometto contava i soldi, li riuniva in mucchietti e prendeva note in un quadernetto. Bagnava la punta alla matita senza disturbare la sigaretta che gli abitava in bocca.

Dovevano esserci parecchie centinaia di dollari, su quel tavolo.

– Giorno d'affitti? – domandai con aria brillante.

L'omino si volto di scatto. Per un istante sorrise, senza dire ba. Aveva il sorriso di un uomo i cui pensieri non sorridono. Si tolse di bocca il mozzicone di sigaretta, lo lascio cadere al suolo e lo pesto col piede. Trasse una sigaretta nuova dalla camicia, l'introdusse nello stesso buco, in mezzo alla faccia, e comincio a frugarsi addosso in cerca d'un cerino.

– Siete entrato gentilmente – osservo in tono cordiale.