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Poiche non riusciva a trovare il cerino si volto distrattamente senza alzarsi e infilo una mano in una tasca della giacca. Qualcosa di pesante batte contro il legno della sedia. Riuscii ad afferrargli il polso prima che l'oggetto pesante uscisse di tasca. L'ometto si getto all'in dietro con tutto il suo peso e la tasca della giacca comincio a sollevarsi, verso di me. Gli feci partire la sedia di sotto. Lui cadde a sedere secco sul pavimento e batte la testa contro lo spigolo del tavolo. Questo non gli impedi di tentare di assestarmi un calcio al basso ventre. Mi tirai indietro, con la sua giacca in mano, e levai dalla tasca la "trentotto" con la quale aveva giocherellato.

– Non restate seduto per terra solo per mostrarvi ospitale – dissi.

Lui si alzo lentamente, fingendosi piu stordito di quanto non fosse. Pasticcio un istante col colletto, vicino alla nuca, e la luce ammicco sul metallo, mentre il suo braccio si alzava, rapidissimo, verso di me. Era un ometto molto vivace.

Gli accarezzai una mascella con la sua stessa pistola e lui torno a sedersi sull'impiantito. Posai un piede, con tutto il mio peso, sulla mano che stringeva il coltello. L'omino contrasse il viso per il dolore, ma non aperse bocca. Cosi io spedii il coltello in un angolo, con una pedata. Era un coltello lungo e sottile, e pareva molto appuntito.

– Dovreste vergognarvi a puntare rivoltelle e pugnali contro la gente che va in cerca di un buco per vivere – protestai. – Anche di questi tempi e un'esagerazione fuori luogo.

Lui s'infilo la mano ferita tra le ginocchia, la strinse e comincio a fischiettare tra i denti. A quanto pareva la botta alla mascella non gli aveva fatto ne caldo ne freddo.

– D'accordo – brontolo – d'accordo. Mica sono perfetto. Prendete il grano e filate. Ma non crediate di averla fatta franca.

Diedi un'occhiata alle banconote di piccolo e medio taglio e alle monete d'argento, sulla tavola.

– Dovete incontrare una quantita di cattivi pagatori, a giudicare dall'arsenale che vi portate dietro – osservai.

Mi diressi verso la porta che dava all'interno della casa e tentai la maniglia. Non era chiusa a chiave. Mi voltai.

– Vi lascero la pistola nella cassetta delle lettere – promisi. – E la prossima volta chiedete di vedere il tesserino.

Lui stava ancora fischiettando gentilmente fra i denti, e stringendosi la mano. Mi lancio un'occhiata acuta, pensosa, poi spazzo il danaro in una borsa di pelle malandata e fece scattare la serratura. Si tolse il cappello, lo rabbercio e torno a piantarselo spavaldamente sulla nuca; poi mi rivolse un sorriso rapido, efficiente.

– Non vi disturbate per la pistola. La citta e piena di ferrivecchi. Il coltello, invece, potete lasciarlo a Clausen. Ho dovuto sudarci sopra parecchio, per metterlo a punto.

– E dopo? L'avete usato molto?

– Puo darsi. – Agito un dito al mio indirizzo, allegramente. – Forse ci incontreremo ancora, un giorno o l'altro. Magari quando saro con un amico.

– Ditegli che si metta una camicia pulita – consigliai. – E che ve ne presti una.

– Oh cielo, oh cielo – fece l'omino con aria di disapprovazione. – Come diventiamo cattivi, appena abbiamo la patacca dietro al risvolto.

Mi passo davanti, senza rumore, e scese i gradini di legno del portico. I suoi passi risonarono lungo la strada, e pian piano si spensero. Somigliavano molto al ticchettio delle scarpine di Orfamay, lungo il corridoio del mio ufficio. E per qualche misteriosa ragione io provai un senso di vuoto, come se avessi calcolato male le briscole. Ma non c'era nessuna ragione.

Nessuna. Forse era la durezza dell'omino. Niente gemiti, niente proteste.

Solo quel sorriso, quel fischiettare fra i denti, la voce noncurante e gli occhi che non dimenticavano.

Andai a raccogliere il coltello. La lama era lunga, rotonda e sottile, come una lima che fosse stata levigata. L'impugnatura e la guardia erano di materia plastica leggera, e parevano tutte d'un pezzo. Afferrai l'arma per l'impugnatura e assestai una rapida pugnalata al tavolo. La lama si stacco e rimase infissa nel legno, vibrando.

Trassi un profondo respiro, infilai di nuovo il manico sul fittone di metallo e riuscii a scalzare la lama dal tavolo. Un coltello curioso, con un disegno e uno scopo ben definiti e tutt'altro che gradevoli.

Apersi la porta che dava nell'interno della casa, e varcai la soglia, col coltello e la pistola in una mano sola.

Mi trovai in un salotto con un letto a muro, e il letto era tirato giu e mezzo disfatto. C'era una poltrona imbottita con un buco bruciacchiato in un bracciolo. Una scrivania alta, di quercia, con gli sportelli obliqui come le porte d'una cantina all'antica, era appoggiata al muro, vicino alla finestra di strada. Poco distante c'era un divano e sul divano giaceva un uomo. I suoi piedi, avvolti in calzini grigi, pieni di protuberanze, sporgevano dall'orlo del sedile. La testa aveva mancato il cuscino di mezzo metro buono. Non era stata una gran perdita, a giudicare dal colore della federa. L'uomo portava una camicia senza colore e una giacca di maglia grigia, molto lisa.

Aveva la bocca aperta, il viso lustro di sudore e respirava come una vecchia Ford col dotto della benzina guasto. Su un tavolo, al suo fianco, c'era un piatto pieno di mozziconi di sigaretta, alcuni dei quali avevano l'aria d'esser fatti a mano. Sul pavimento una bottiglia di gin quasi piena e una tazza che pareva aver contenuto caffe, ma tutt'altro che di recente. Nella stanza dominavano l'odore di gin e l'aria viziata, ma c'era anche una vaga reminiscenza di fumo di marijuana.

Apersi una finestra e appoggiai la fronte all'imposta per respirare una boccata d'aria piu fresca e osservai la strada. Due ragazzini compivano evoluzioni in bicicletta, lungo la staccionata del magazzino di legname, fermandosi di tanto in tanto, per studiare gli esemplari di arte da caserma, sull'assito. Nient'altro si moveva, nel vicinato. Nemmeno un cane. All'angolo della via c'era una nuvola di polvere, nell'aria, come se fosse appena passata un'automobile.

Mi avvicinai alla scrivania. In un cassetto c'era il registro degli ospiti.

Sfogliai le pagine all'indietro, finche arrivai al nome: "Orrin P. Quest" vergato in una scrittura appuntita e meticolosa, e le parole "N. 14, piano 2" aggiunte a matita da un'altra grafia, che non era ne appuntita ne meticolosa. Di li tornai alle ultime pagine ma non trovai nuove registrazioni, per la camera 14. Nella camera 15 abitava un certo G. W. Hicks. Riposi il registro e mi avvicinai al divano. L'uomo smise di russare e di gorgogliare e si getto un braccio attraverso il petto come se stesse per fare un discorso. Mi chinai, gli afferrai il naso ben stretto, fra l'indice e il medio e gli ficcai in bocca un lembo del suo golf. Lui smise definitivamente di russare e spalanco gli occhi di scatto. Erano vitrei e iniettati di sangue. Cerco di sottrarsi alla mia mano. Quando fui certo che era sveglio del tutto lo lasciai andare, presi la bottiglia di gin dal pavimento e versai un po' di liquore in un bicchiere che giaceva su un fianco, accanto alla bottiglia. Poi mostrai il bicchiere all'uomo.

La sua mano scatto in avanti con la bella ansia di una madre che da il benvenuto a un figlioletto perduto.

Tirai indietro il bicchiere e domandai:

– Siete il direttore?

Lui si lecco le labbra, a fatica come se appiccicassero e disse:

– G-r-r-rr.

Tento di nuovo di afferrare il bicchiere. Io lo deposi sul tavolo, di fronte a lui. Lui lo prese cautamente, con entrambe le mani e si verso il gin in gola. Poi scoppio in una grassa risata e mi getto il bicchiere. Riuscii ad afferrarlo e lo deposi nuovamente sul tavolo. L'uomo mi esamino, sforzandosi di fare il severo, ma senza successo.

– Che cosa c'e? – gracchio in tono annoiato.

– Siete il direttore?

Annui e per poco non cadde dal divano.

– Devo essere un po' sbronzino – disse. – Sbronzino un pochino pochino.

– Non siete poi tanto conciato – osservai. – Respirate ancora.

L'uomo poso i piedi a terra e si rizzo, a fatica. Improvvisamente scoppio in una risatina rauca, divertita, fece tre passi incerti, cadde carponi e tento di mordere la gamba d'una sedia.