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«All’inizio è rimasta con me, ma lui le mancava. Era infelice... perciò ho deciso che era il caso di passare un po’ di tempo in famiglia con Charlie». Nel dire questo la mia voce si era fatta cupa e triste.

«Ma ora sei infelice tu», suggerì lui.

«E...?», obiettai a mo’ di sfida.

«Non mi sembra giusto». Si strinse nelle spalle, i suoi occhi però erano sempre intensi.

Abbozzai una risata, ma non ero divertita. «Non te l’hanno ancora detto? La vita non è giusta».

«Penso di averla già sentita», rispose laconico.

«E questo è tutto». Chissà perché mi stava ancora fissando in quel modo.

Prese a studiarmi, stava facendo le sue valutazioni. «Dai buona mostra di te», disse, lentamente. «Ma sono pronto a scommettere che soffri molto più di quanto dai a vedere».

Storsi la bocca, resistendo a malapena all’istinto di tirare fuori la lingua come una bambina di cinque anni, e distolsi lo sguardo.

«Mi sbaglio?».

Cercai di ignorarlo.

«Io credo di no», ribadì, sfacciato.

«Perché ti dovrebbe interessare?», chiesi, irritata. Evitavo di guardarlo, seguivo il professore che girava tra i banchi.

«Questa è una domanda molto sensata», bofonchiò, così piano che pensai parlasse tra sé e sé. In ogni caso, dopo qualche secondo di silenzio, capii che non sarebbe andato oltre quella risposta.

Sospirai, imbronciata, guardando la lavagna.

«Ti do fastidio?», chiese. Sembrava divertito.

Mi voltai verso di lui senza pensare... e gli dissi di nuovo la verità. «Non esattamente. Sono io stessa a darmi fastidio. Il mio volto è così facile da leggere... mia madre dice sempre che sono un libro aperto». Aggrottai le sopracciglia.

«Al contrario, per me tu sei molto difficile da leggere». Malgrado tutto ciò che gli avevo detto e che lui aveva intuito, sembrava sincero.

«Devi essere un bravo lettore, allora», replicai.

«Di solito sì». Si illuminò di un gran sorriso, sfoggiando una schiera di denti perfetti e bianchissimi.

Il professor Banner riportò la classe all’ordine, e io mi disposi ad ascoltarlo con sollievo. Non riuscivo a credere di avere appena raccontato tutta la mia vita desolata a questo ragazzo bizzarro e bellissimo, che forse mi odiava, o forse no. Mi era sembrato molto preso dalla conversazione, ma ora, con la coda dell’occhio, lo vedevo arretrare di nuovo, le mani serrate sul bordo del tavolo, in palese tensione.

Finsi di stare attenta, mentre il professore illustrava con le diapositive ciò che avevo appena visto senza problemi attraverso il microscopio. Ma i miei pensieri erano ingestibili.

Quando infine la campanella suonò, Edward scivolò via dall’aula con la stessa velocità e grazia del lunedì precedente. Io, come la settimana prima, rimasi a occhi sgranati per lo stupore.

Mike si presentò subito al mio fianco e mi aiutò a portare i libri. Me lo immaginavo scodinzolante.

«Terribile», disse con un lamento. «Sembravano tutti identici. Sei stata fortunata a lavorare assieme a Cullen».

«Non ci ho trovato niente di difficile», risposi, punta dalla sua osservazione. Ma me ne pentii all’istante. «Era un esperimento che ho già fatto», aggiunsi, prima che potesse aversene a male.

«Oggi Cullen sembrava piuttosto amichevole», commentò, mentre ci stringevamo nelle giacche a vento. Non ne sembrava tanto contento.

Cercai di fare l’indifferente. «Chissà cosa gli era preso lunedì scorso».

Andando in palestra non riuscii a concentrarmi sul suo chiacchiericcio, e non prestai attenzione nemmeno alla lezione di ginnastica. Quel giorno ero in squadra con Mike. Molto cavallerescamente difese la sua zona e la mia, perciò potevo andare tranquilla a farfalle, eccetto nei miei turni di battuta. I miei compagni si riparavano ogni volta che toccava a me.

Quando uscii nel parcheggio, la pioggia era diventata solo una nebbiolina, ma nonostante tutto mi sentii davvero bene soltanto all’asciutto nel mio pick-up. Accesi il riscaldamento e per una volta non mi preoccupai del rombo rintronante del motore. Mi slacciai la giacca a vento, mi liberai dal cappuccio e scossi i capelli umidi perché si potessero asciugare con la ventola nel tragitto verso casa.

Mi guardai attorno per controllare che non ci fossero altre auto. Fu in quel momento che notai una sagoma bianca, immobile. Edward Cullen era appoggiato alla portiera anteriore della Volvo, a tre auto di distanza dalla mia, e guardava fisso verso di me. Distolsi lo sguardo alla svelta, ingranai la retromarcia, e poco ci mancava che per la fretta colpissi in pieno la Toyota Corolla che mi seguiva. Fortunatamente per la Toyota, feci in tempo a inchiodare. Quello era esattamente il tipo di auto che il mio pick-up avrebbe trasformato in una palla di lamiera. Feci un respiro profondo, guardai di nuovo dal lato opposto della mia macchina, e con cautela iniziai a muovermi, questa volta senza fare danni. Passando davanti alla Volvo cercai di fissare soltanto la strada, ma con una sbirciatila laterale vidi Edward e - sarei pronta a giurarlo - rideva.

3

Fenomeno

Il giorno dopo, al mio risveglio, qualcosa era cambiato.

Era la luce. Era sempre del consueto grigioverde, come in una foresta sotto il cielo coperto, ma appariva più limpida del solito. Fuori dalla finestra non c’era il velo di nebbia a cui mi ero abituata.

Saltai giù dal letto per controllare, e grugnii, disgustata.

Il cortile era ricoperto da un sottile strato di neve, di cui era anche spolverato il tetto del pick-up e imbiancata la strada. Ma c’era di peggio. La pioggia del giorno prima si era ghiacciata, disegnava ghirigori fantasiosi e splendenti tra gli aghi dei pini e aveva trasformato il vialetto in un lastrone mortale. Avevo già i miei problemi di stabilità sull’asciutto: forse, per la mia incolumità, sarebbe stato meglio tornare subito a letto.

Charlie uscì prima che io scendessi al piano di sotto. Per molti versi, vivere con mio padre era come avere una casa tutta mia e, lungi dal sentirmi abbandonata, mi godevo quelle occasioni di solitudine.

Divorai qualche cucchiaiata di cereali e un po’ di succo d’arancia direttamente dal cartone. Ero eccitata all’idea di andare a scuola e la cosa mi spaventava. Sapevo bene che il merito non era dell’ambiente educativo stimolante o dei miei nuovi amici. Inutile raccontarsi storie, ero in agitazione perché sapevo che avrei incontrato Edward Cullen. E ciò era molto, molto stupido.

Dopo tutto il mio blaterare insensato e imbarazzante del giorno prima, sarebbe stato il caso di girargli alla larga. Ed ero ancora piuttosto diffidente: che senso aveva mentire sul colore degli occhi? Continuavo a temere un’ostilità che talvolta mi pareva ancora di cogliere in lui, e mi bastava anche solo immaginare il suo viso perfetto perché mi si annodasse la lingua. Ero perfettamente consapevole che apparteneva a un’altra categoria, irraggiungibile. Perciò tutta quell’impazienza di vederlo era immotivata.

Ci volle tutta la concentrazione di cui ero capace per arrivare viva alla fine del vialetto ghiacciato. Rischiai di perdere l’equilibrio quando ormai avevo raggiunto il pick-up, ma mi aggrappai allo specchietto, e fui salva. Non avevo dubbi, quel giorno sarebbe stato un incubo.

Guidando verso la scuola, cercai di non pensare alla paura di cadere e di non fare involontarie speculazioni su Edward Cullen, e mi concentrai su Mike ed Eric e sul modo nuovo in cui i ragazzi qui a Forks reagivano alla mia presenza. Ero certa di non essere minimamente cambiata, rispetto a Phoenix. Forse dipendeva soltanto dal fatto che a casa i miei coetanei mi avevano vista attraversare lentamente le fasi più impacciate dell’adolescenza e mi giudicavano ancora una ragazzina. Forse qui ero soltanto una novità, in un luogo in cui le novità erano poche e rare. Poteva anche darsi che la mia rovinosa goffaggine apparisse tenera, anziché patetica, e mi facesse vestire i panni della damigella bisognosa d’aiuto. Qualunque fosse il motivo, il comportamento da cagnolino di Mike e l’apparente rivalità di Eric nei suoi confronti mi sconcertavano un po’. Tutto sommato, non ero sicura che non fosse meglio essere ignorata.