Выбрать главу

L’abitacolo era ordinato e asciutto. Billy o Charlie ovviamente lo avevano ripulito, ma il rivestimento di pelle dei sedili puzzava ancora un po’ di tabacco, benzina e deodorante alla menta. Il motore, con mio gran sollievo, si accese subito, ma prese vita con un rombo e già al minimo faceva un rumore assordante. Be’, un mezzo così vecchio doveva avere almeno un difetto. La radio d’antiquariato funzionava, una fortuna in cui non avevo sperato.

Trovare la scuola non fu difficile, malgrado non ci fossi mai stata prima. Come quasi tutto, a Forks, era poco lontana dall’autostrada. A vederla non avrei detto fosse una scuola: mi ci fermai solo grazie al cartello che indicava la «Forks High School». Sembrava una raccolta di case tutte uguali di mattoni rosso scuro. La vegetazione di alberi e cespugli era talmente fitta che non riuscii a farmi subito un’idea di quanto fosse grande il complesso. Mi chiesi con un po’ di nostalgia dove fosse l’atmosfera tipica dei luoghi pubblici. Dov’erano le recinzioni e i metal detector?

Parcheggiai di fronte al primo edificio, sulla cui entrata spiccava il cartello «Segreteria». Non c’erano altre auto, perciò era senz’altro zona vietata, ma decisi di entrare a chiedere la strada, invece di girare in tondo sotto la pioggia come un’idiota. Uscii di malavoglia dall’abitacolo caldo del pick-up e seguii un sentierino di ciottoli tra due siepi scure. Prima di aprire la porta feci un respiro profondo.

All’interno c’erano più caldo e luce di quanto avessi sperato. L’ufficio era piccolo: una minuscola area con sedie pieghevoli imbottite che faceva da sala d’attesa, moquette scura variegata di arancione, le pareti tappezzate di avvisi e graduatorie, il pesante ticchettio di un grosso orologio a muro. C’erano piante ovunque, in grossi vasi di plastica, come se fuori non ci fosse abbastanza verde. La stanza era divisa in due da un lungo bancone, disseminato di cestini metallici pieni di moduli e volantini colorati incollati dappertutto. Dietro il bancone c’erano tre scrivanie, una delle quali era occupata da una donna imponente, occhialuta e rossa di capelli. Indossava una maglietta viola, che mi fece immediatamente sentire troppo coperta.

La donna dai capelli rossi alzò lo sguardo. «Posso esserti utile?».

«Sono Isabella Swan», la informai, e immediatamente vidi i suoi occhi accendersi. Mi aspettava, mi aspettavano tutti, senza dubbio ero già stata al centro dei loro pettegolezzi. La figlia della ex moglie fuggitiva dell’ispettore, che finalmente torna a casa.

«Certo», disse. Rovistò con la mano in una pila molto precaria di documenti sulla scrivania, finché ne estrasse quello che stava cercando. «Qui c’è il tuo orario, assieme a una pianta della scuola». Sistemò sul banco parecchi fogli e me li mostrò.

Mi indicò sulla pianta le aule delle mie lezioni e il percorso migliore per raggiungerle, poi mi diede un modulo da fare controfirmare a ognuno dei miei professori e da riportare in segreteria a fine giornata. Mi sorrise e, come Charlie, mi augurò di trovarmi bene, lì a Forks. Le rivolsi il sorriso più convincente che potessi.

Quando tornai al pick-up, gli altri studenti stavano cominciando ad arrivare. Seguii il traffico e feci un giro attorno alla scuola. Notai con piacere che la maggior parte delle auto era vecchia come la mia, niente di appariscente. A Phoenix avevo vissuto in uno dei pochi quartieri a basso reddito inclusi nel distretto di Paradise Valley. Era normale trovare una Mercedes o una Porsche nuova nel parcheggio degli studenti. Qui l’auto più bella era una Volvo tirata a lucido e spiccava in mezzo alle altre. Tuttavia mi affrettai a spegnere il motore non appena trovai un parcheggio, per non attirare l’attenzione con quel rombo tremendo.

Prima di scendere osservai bene la mappa, cercando di memorizzarla; così magari non avrei dovuto camminare tutto il giorno con la cartina sotto il naso. La ficcai nello zaino che tenevo in spalla e feci un altro respiro, profondissimo. Posso farcela, dissi, mentendo a me stessa senza troppa convinzione. Non mordono mica. Svuotai i polmoni e scesi dal pick-up.

Camminavo con il volto nascosto dal cappuccio sul marciapiede affollato di ragazzi. Mi accorsi con sollievo che il mio semplice giubbotto nero a tinta unita non dava nell’occhio.

Giunta alla mensa, l’edificio numero 3 non era difficile da individuare. Sulla facciata est era dipinto il grosso numero nero su sfondo bianco. Più mi avvicinavo alla porta, più sentivo il mio respiro avvicinarsi all’iperventilazione. Cercai di trattenerlo, e seguendo due impermeabili unisex varcai l’entrata.

L’aula era piccola. Le due persone che mi precedevano si fermarono subito oltre, per appendere gli impermeabili a una lunga fila di ganci. Le imitai. Erano due ragazze, una bionda, dalla pelle color porcellana, e l’altra ugualmente pallida, ma con i capelli castano chiaro. Almeno la mia carnagione qui non strideva.

Portai il mio modulo al professore, un uomo alto e calvo, che secondo la targhetta sulla cattedra si chiamava Mr Mason. Quando lesse il mio nome mi fissò con l’aria di chi casca dalle nuvole - reazione tutt’altro che incoraggiante - e ovviamente io arrossii violentemente. Almeno mi fece sedere in ultima fila, senza nemmeno presentarmi ai miei nuovi compagni di classe. Per loro era difficile osservarmi, ma in qualche modo ci riuscirono. Io tenevo gli occhi bassi sulla lista di letture che avevo ricevuto dal professore. Era piuttosto elementare: Brontë, Shakespeare, Chaucer, Faulkner. Avevo letto già tutto. Tanto bastò a tranquillizzarmi... e ad annoiarmi. Chissà se mia madre avrebbe acconsentito a spedirmi i miei vecchi appunti e temi, o se l’avrebbe giudicato sleale. Accompagnata dal mormorio monotono del professore, mi persi in una serie di discussioni immaginarie con lei.

Quando si diffuse il suono nasale e ronzante della campana, un ragazzo allampanato, con qualche problema cutaneo e i capelli neri come una macchia d’olio, si sporse dalla sua fila per parlarmi.

«Tu sei Isabella Swan, vero?». Aveva l’aria del tipico cervellone, impacciato e pieno di attenzioni. Troppe attenzioni.

«Bella», precisai. Nel raggio di tre banchi da me, tutti si voltarono a guardarmi.

«Dov’è la tua prossima lezione?», chiese lui.

Dovetti controllare, nello zaino. «Ehm, educazione civica, con Jefferson, edificio 6».

Ovunque guardassi, incontravo occhi curiosi.

«Io sto andando al 4, se vuoi ti mostro la strada...». Troppe attenzioni, decisamente. «Mi chiamo Eric», aggiunse.

Abbozzai un sorriso. «Grazie».

Ci infilammo i giubbotti e uscimmo sotto la pioggia, che cadeva più fitta. Avrei giurato che la nutrita folla che ci seguiva a pochi passi di distanza fosse intenta a origliare la conversazione. Sperai di non diventare paranoica.

«Così, c’è una bella differenza tra qui e Phoenix, eh?», chiese lui.

«Già».

«Laggiù non piove molto, vero?».

«Tre o quattro volte all’anno».

«Caspita, chissà com’è», si chiese lui.

«Assolato».

«Non sembri molto abbronzata».

«Mia madre è mezzo albina».

Mi squadrò con aria apprensiva, e io sospirai. A quanto pareva, le nuvole e il senso dell’umorismo non andavano d’accordo. Qualche mese così e avrei disimparato a usare il sarcasmo.

Girammo attorno alla mensa e passammo accanto alla palestra, diretti verso l’ala sud della scuola. Eric mi accompagnò fino all’ingresso dell’aula, nonostante le indicazioni fossero chiarissime.

«Be’, buona fortuna», disse, mentre aprivo la porta. «Magari ci vediamo a qualche altra lezione». Sembrava speranzoso.

Gli rivolsi un sorriso debole ed entrai.

Il resto della mattinata trascorse più o meno allo stesso modo. Il professore di trigonometria, Mr Varner, che avrei odiato in ogni caso soltanto per la materia che insegnava, fu l’unico che mi presentò ufficialmente alla classe, costringendomi a salutare i miei nuovi compagni, impalata di fronte alla cattedra. Balbettai, arrossii e inciampai nei miei stessi stivali mentre tornavo al posto.