«Tre giorni? Non siete tornati oggi?».
«No, siamo a casa da domenica».
«Ma allora perché nessuno di voi è venuto a scuola?». Ero frustrata, quasi infuriata, al pensiero della sofferenza che mi aveva causato non vederlo.
«Be’ mi hai chiesto se il sole mi fa male e ti ho risposto di no. Però non posso espormi alla sua luce... perlomeno, non in pubblico».
«Perché?».
«Un giorno ti farò vedere, te lo prometto».
Ci pensai un istante.
«Potevi chiamarmi».
Lui restò di stucco. «Ma sapevo che eri sana e salva».
«Io invece non sapevo dove fossi tu. Io...», non riuscii a continuare e chinai lo sguardo.
«Cosa?». La sua voce era vellutata. Impossibile non arrendermi.
«Non mi ha fatto piacere non vederti. Anche a me viene l’ansia». Pronunciare quella frase ad alta voce mi fece arrossire.
Lui tacque. Alzai lo sguardo, impaziente, e vidi sul suo volto un’espressione addolorata.
«Ah», esclamò tra sé. «Così non va».
Non capii quella risposta. «Cos’ho detto?».
«Non capisci, Bella? Che io renda infelice me stesso è una cosa, ma che tu sia coinvolta è un altro paio di maniche». Rivolse lo sguardo preoccupato verso la strada, parlava troppo velocemente, quasi non lo capivo. «Non voglio più sentirti dire che provi cose del genere», disse, con un tono basso ma deciso. Le sue parole mi trafissero. «È sbagliato. È rischioso. Bella, io sono pericoloso... ti prego, renditene conto».
«No». Era molto difficile cercare di non sembrare una bambina testarda.
«Dico sul serio», ringhiò lui.
«Anch’io. Te l’ho detto, non m’importa cosa sei. È troppo tardi».
La sua voce schioccò come una frustata, sorda e secca. «Non dirlo mai».
Serrai le labbra, lieta che non si rendesse conto del mio tormento. Guardai fuori dal finestrino. Superavamo di molto il limite di velocità. Ormai eravamo quasi arrivati.
«A cosa pensi?», chiese, ancora nervoso. Scossi il capo, non mi sembrava il caso di parlare. Sentivo il suo sguardo addosso, ma non battevo ciglio.
«Piangi?». Sembrava stupito. Non mi ero accorta che i lucciconi avessero debordato. Mi strofinai in fretta la guancia. E sì, eccome se c’erano.
«No». Cercai di parlare, ma non avevo voce.
Lo vidi accennare un movimento con la mano destra, sembrava volesse toccarmi ma si bloccò, e lentamente tornò a stringere il volante.
«Scusa». La sua voce era densa di dispiacere. Sapevo che non si riferiva soltanto alle parole che mi avevano turbata.
L’oscurità e il silenzio ci avvolsero.
«Dimmi una cosa», chiese, dopo un altro minuto, sforzandosi palesemente di assumere un tono più leggero.
«Parla».
«Cosa stavi pensando stasera, poco prima che arrivassi io? Non riuscivo a leggere la tua espressione. Non sembravi impaurita, pareva che ti sforzassi di concentrarti su qualcosa».
«Cercavo di ricordare come si mette fuori combattimento un assalitore... insomma, l’autodifesa. Stavo per spappolargli il naso conficcandoglielo nel cervello». Sentii una fitta d’odio ripensando all’uomo con i capelli scuri.
«Li avresti affrontati?». Questo lo sbalordiva. «Non pensavi di scappare?».
«Quando corro inciampo a tutto spiano».
«Chiedere aiuto con un urlo?».
«Ci stavo arrivando».
Scosse la testa. «Hai ragione. Cercare di tenerti in vita vuole dire davvero lottare contro il destino».
Sospirai. Rallentavamo, stavamo entrando dentro Forks. Dopo meno di venti minuti di viaggio.
«Ci vediamo domani?», chiesi.
«Sì... Anch’io devo consegnare un saggio». Sorrise. «Ti tengo il posto, a pranzo».
Era assurdo, dopo tutto quel che avevamo passato nelle ore precedenti, che quella piccola promessa mi facesse sentire le farfalle nello stomaco, e fui incapace di aprire bocca.
Eravamo giunti di fronte a casa di Charlie. Le luci erano accese, il pickup parcheggiato, tutto assolutamente normale. Fu come svegliarsi da un sogno. L’auto si fermò, ma non accennai a scendere.
«Prometti che domani ci sarai?».
«Lo prometto».
Ci pensai per qualche istante, poi annuii. Mi levai il suo giaccone, annusandolo un’ultima volta.
«Puoi tenerlo... o domani non avrai niente da mettere».
Glielo restituii. «Non mi va di dare spiegazioni a Charlie».
«D’accordo». Ammiccò.
Rimasi lì, la mano sulla portiera, desiderosa di prolungare quel momento.
«Bella?», domandò, con tutt’altra voce. Seria, ma con un tentennamento.
«Sì?». Mi voltai verso di lui fin troppo pronta.
«Mi prometti una cosa?».
«Sì». Subito, però, mi pentii della mia condiscendenza incondizionata. E se mi avesse chiesto di restargli lontana? Non avrei potuto mantenere la parola.
«Non andare nel bosco da sola».
Lo fissai confusa, stupefatta. «Perché?».
Si fece scuro in viso e rivolse uno sguardo aguzzo dietro di me, oltre il finestrino.
«Diciamo che non sono sempre io, la cosa più pericolosa in circolazione».
L’improvvisa tetraggine della sua voce mi provocò un brivido, ma poco importava. Una promessa del genere almeno era facile da rispettare. «Come vuoi».
«Ci vediamo domani», disse, con un sospiro, e capii che voleva che ci salutassimo così.
«A domani, allora». Aprii la portiera controvoglia.
«Bella?». Mi girai di nuovo e lui era lì, proteso verso di me, il suo volto magnifico e pallido a pochi centimetri dal mio. Mi si fermò il cuore.
«Sogni d’oro». Il suo respiro mi soffiò sulle guance e mi stordì. Lo stesso profumo squisito che avevo sentito sul suo giubbotto, soltanto più denso. Si allontanò, e io rimasi impalata e sbalordita, con gli occhi sbarrati.
Restai impietrita finché non sciolsi il nodo che avevo nel cervello. Poi scesi dall’auto goffamente, tanto che dovetti reggermi alla carrozzeria per non cadere. Mi sembrò di sentirlo ridere, ma il suono era troppo soffocato per esserne certa.
Attese finché non raggiunsi l’entrata, dopodiché lo sentii avviare il motore. Rimasi a guardare l’auto argentea sparire dietro l’angolo. Allora mi resi conto che faceva davvero freddo.
Meccanicamente frugai in cerca della chiave, aprii la porta ed entrai.
Dal salotto, Charlie mi chiamò: «Bella?».
«Sì, papà, sono io». Gli andai incontro. Stava guardando una partita di baseball.
«Sei in anticipo».
«Davvero?».
«Non sono nemmeno le otto. Vi siete divertite?».
«Sì, parecchio». La testa mi girava, mentre cercavo di ricostruire la serata con le ragazze come l’avevo immaginata. «Hanno trovato dei bei vestiti».
«Tu stai bene?».
«Sono un po’ stanca. Ho camminato molto».
«Be’, forse è il caso che ti riposi». Sembrava preoccupato. Chissà che espressione avevo.
«Prima volevo chiamare Jessica».
«Ma non eri con lei fino a un attimo fa?», chiese, sorpreso.
«Sì... ma ho lasciato il giaccone nella sua auto. Non vorrei che domani si dimenticasse di riportarmelo».
«Va bene, ma almeno aspetta che sia tornata a casa».
«Giusto».
Entrai in cucina e mi lasciai cadere su una sedia, esausta. Mi sentivo davvero scossa adesso. Forse la crisi di panico stava arrivando a scoppio ritardato. Mi sforzavo di mantenere il controllo.
Il trillo improvviso del telefono mi fece sobbalzare. Sollevai la cornetta rischiando di strapparla.
«Pronto?», risposi senza fiato.
«Bella?».
«Ehi, Jess. Stavo per chiamarti».
«Ce l’hai fatta a tornare?». Sembrava sollevata... e sorpresa.
«Sì. Ho lasciato la giacca nella tua macchina: domani me la riporti?».
«Certo. Dai, racconta com’è andata!».
«Ehm... domani a trigonometria, d’accordo?».
Capì al volo. «Oh, tuo padre è in ascolto?».
«Esatto».
«Va bene, ne parliamo domani. Ciao!». Moriva di curiosità, trapelava da ogni sillaba.
«Ciao, Jess».
Salii le scale lentamente, con la testa avvolta in una nuvoletta di intontimento. Mi preparai a dormire con gesti meccanici, inconsapevoli. Soltanto sotto il getto bollente della doccia mi resi conto del freddo che sentivo addosso. Per parecchi minuti tremai violentemente, prima di riuscire a rilassare i muscoli sotto il getto vaporoso. Troppo stanca per muovermi, restai lì fino a esaurire l’acqua calda.