Mi trascinai fuori dalla doccia stringendomi nell’asciugamano, per non far sfuggire il calore che avevo addosso e proteggermi dai brividi. Indossai in un baleno il pigiama e arrancai sotto le coperte, rannicchiata, per scaldarmi. Sentii qualche ultimo accenno di tremore.
La testa mi girava come una giostra, ero piena di immagini incomprensibili, alcune cercavo di reprimerle. A prima vista niente sembrava chiaro, ma più mi avvicinavo a uno stato di incoscienza, più emergevano nettamente alcuni punti fermi.
Di tre cose ero del tutto certa. Primo, Edward era un vampiro. Secondo, una parte di lui - chissà quale e quanto importante - aveva sete del mio sangue. Terzo, ero totalmente, incondizionatamente innamorata di lui.
10
Interrogatori
Il mattino dopo, fu davvero difficile persuadere la parte di me che credeva di avere sognato tutto. Né la logica né il buonsenso erano dalla mia parte. Cercavo un appiglio nei particolari che non potevo avere sognato: il suo profumo, ad esempio. Ero sicura che quello non potesse essere soltanto una mia invenzione.
Fuori dalla finestra il panorama era scuro e nebbioso, assolutamente perfetto. Non aveva scuse per non presentarsi a scuola. Indossai abiti pesanti, visto che - ricordai - ero rimasta senza giubbotto. Ulteriore prova che la memoria non m’ingannava.
Scesa al piano di sotto, non trovai Charlie: ero molto più in ritardo di quanto pensassi. Ingoiai una barretta di cereali in tre morsi, la innaffiai con un po’ di latte, bevendolo direttamente dal cartone, e mi affrettai a uscire. Con un po’ di fortuna, avrei trovato Jessica prima che iniziasse a piovere.
C’era molta più nebbia del solito; l’aria sembrava densa di fumo. La foschia aderiva ghiacciata sulla faccia e sul collo. Non vedevo l’ora di accendere il riscaldamento del pick-up. La visibilità era talmente scarsa che percorsi alcuni metri sul vialetto senza accorgermi che un’auto lo occupava: un’auto grigia, metallizzata. Il mio cuore iniziò a martellare, incespicò, e riprese raddoppiando il ritmo dei battiti.
Non capivo da dove fosse spuntato, ma di colpo eccolo lì che mi apriva lo sportello e m’invitava a salire.
«Hai bisogno di un passaggio?», chiese, divertito dalla mia espressione, consapevole che per l’ennesima volta mi aveva colta di sorpresa. Non sembrava troppo convinto della sua proposta. E non stava tentando di convincermi: ero libera di rifiutare, e forse una parte di lui sperava lo facessi. Speranza vana.
«Sì, grazie». Cercai di non tradire l’agitazione. Al caldo dell’abitacolo, notai il giaccone di pelle appeso al poggiatesta del passeggero. La mia portiera si chiuse e, prima di quanto ritenessi possibile, Edward si sedette al mio fianco e mise in moto.
«Ti ho portato questo. Non volevo che ti prendessi un raffreddore o qualcosa del genere». Stava sulla difensiva. Indossava soltanto una maglia leggera grigia a maniche lunghe, con scollo a V. Il tessuto aderiva al suo torace muscoloso e perfetto. Che io riuscissi a distogliere lo sguardo dal suo corpo era la dimostrazione della bellezza inaudita del suo viso.
«Non sono così delicata», risposi, ma accettai la giacca e la tenni in grembo, infilando le braccia nelle maniche troppo lunghe, curiosa di verificare se il profumo fosse davvero buono come lo ricordavo. Era anche meglio.
«Ah, no?», ribatté con una voce tanto bassa che non capii se volesse farsi sentire.
Percorrevamo le strade della città sature di nebbia, velocissimi come sempre, e impacciati. Io, perlomeno, lo ero. La sera prima, tutti i muri erano caduti...quasi tutti. Non sapevo se quel giorno saremmo stati altrettanto sinceri. Questo mi lasciava interdetta, incapace di parlare. Attesi che fosse lui a farlo.
Si voltò e mi rivolse un sorrisetto: «Ehi, oggi niente questionario?».
«Le mie domande ti innervosiscono?», chiesi, confortata.
«Non quanto le tue reazioni». Sembrava scherzasse, ma non ne ero sicura.
«Reagisco male?». Tornai seria.
«No, è proprio lì il problema. Sei sempre così tranquilla... È innaturale. Mi chiedo cosa ti passi per la testa».
«Ti dico sempre ciò che mi passa per la testa».
«Ma lo censuri».
«Non granché».
«Abbastanza da farmi impazzire».
«Sei tu che non vuoi sentirlo», borbottai, con un filo di voce. Un istante dopo me ne ero già pentita. Speravo non si fosse accorto del tormento nella mia voce.
Il suo silenzio mi fece temere di avergli rovinato l’umore. Mentre entravamo nel parcheggio della scuola, la sua espressione era ancora indecifrabile. In ritardo, mi accorsi di un particolare.
«Ma i tuoi fratelli dove sono?». Ero più che felice di essere sola con lui, ma ricordavo che di solito i posti della sua auto erano tutti occupati.
«Hanno preso la macchina di Rosalie». Si strinse nelle spalle, parcheggiando accanto a una cabriolet rossa fiammante con il tettuccio chiuso. «Appariscente, eh?».
«Uh, caspita», dissi in un fiato. «Se lei ha quella, perché si fa scarrozzare da te?».
«Come ho detto, è appariscente. Noi ci sforziamo di passare inosservati».
«Non ci riuscite». Scesi dall’auto ridendo e scuotendo la testa. Non ero più in ritardo, grazie alla sua guida da pazzo eravamo in perfetto orario. «Ma allora, perché Rosalie oggi ha preso la sua macchina, se è così vistosa?».
«Non te ne sei accorta? Sto infrangendo tutte le regole». Mi venne incontro e mi accompagnò all’ingresso della scuola camminando vicinissimo al mio fianco. Desideravo colmare quella poca distanza, farmi avanti e toccarlo, ma temevo che non avrebbe gradito.
«Ma perché comprate macchine del genere, se siete gelosi della vostra privacy?».
«Un capriccio», ammise, con un sorriso malizioso. «Ci piace andare veloce».
«Ovviamente», mormorai tra me.
Al riparo del portico della mensa, Jessica mi stava aspettando e aveva gli occhi fuori dalle orbite. Tra le braccia, grazie al cielo, stringeva il mio giubbotto.
«Ehi, Jessica», dissi, a pochi metri da lei. «Grazie per essertene ricordata». Mi allungò il giubbotto in silenzio.
«Buongiorno, Jessica», disse Edward, educato. Non era colpa sua, in fondo, se aveva la voce tanto irresistibile. O uno sguardo capace di ipnotizzare.
«Ehm... ciao». Lei mi lanciò un’occhiata sbalordita, mentre cercava di riordinare le idee. «Be’, ci vediamo a trigonometria». Lo sguardo era stato eloquente. Cercai di non farmi prendere dal panico. Che diamine le avrei raccontato?
«D’accordo, ci vediamo dopo».
Se ne andò, ma per due volte si fermò a sbirciare verso di noi.
«Cosa le racconterai?», mormorò Edward.
«Ehi, ma allora mi leggi nel pensiero!».
«No», rispose lui, sorpreso. Poi capì, e il suo sguardo si accese. «Però riesco a leggere nel suo: ti prenderà d’assalto appena entri in classe».
Sbuffai, levandomi il suo giaccone per indossare la mia giacca a vento. Glielo restituii, e lui lo tenne piegato sottobraccio.
«Perciò, cosa le racconterai?».
«Mi dai un aiutino?», supplicai. «Cosa vuole sapere?».
Scosse il capo e sorrise, beffardo: «Non è corretto».
«No, non è corretto che tu non metta a disposizione certe informazioni».
Meditò per qualche istante, finché non giungemmo alla porta della mia classe.
«Vuole sapere se usciamo assieme di nascosto. E vuole che tu le dica ciò che provi per me», disse, infine.
«Oddio. E io cosa dovrei rispondere?». Cercavo di mantenere un’aria innocente. Probabilmente eravamo l’attrazione principale per gli studenti che entravano in aula, ma ci badavo a malapena.
«Mmm». Si fermò per catturare una ciocca ribelle che mi sfiorava il mento e rimetterla al suo posto. Il mio cuore iniziò a scoppiettare, iperattivo. «Penso che potresti rispondere di sì alla prima domanda... se non è un problema per te: è la spiegazione più facile da dare».