«Non è un problema», risposi, con un filo di voce.
«Quanto all’altra... be’, anch’io sarò curioso di sentire la risposta». Da un angolo della sua bocca spuntò il sorriso sghembo che preferivo. Non feci nemmeno in tempo a prendere fiato per controbattere. Se ne stava già andando.
«Ci vediamo a pranzo», disse, voltandosi. Tre ragazzi intenti a entrare in aula si fermarono a osservarmi.
Entrai di corsa, seccata e rossa di vergogna. Che imbroglione. Adesso ero doppiamente preoccupata di ciò che avrei detto a Jessica. Occupai il mio solito posto, lasciando cadere a terra lo zaino di colpo, per l’irritazione.
«’Giorno, Bella», disse Mike, dal banco accanto al mio. Lessi sul suo volto un’espressione strana, quasi rassegnata. «Com’è andata a Port Angeles?».
«È andata...», non ero in grado di fornire un resoconto sincero. «Benone», aggiunsi, goffa. «Jessica ha comprato un vestito davvero carino».
«Ha detto qualcosa a proposito di lunedì sera?», chiese lui, illuminandosi. La piega che aveva preso la conversazione mi fece sorridere.
«Ha detto che si è divertita molto», dissi, per rassicurarlo.
«Davvero?». Era impaziente.
«Certo».
Il professor Mason riportò la classe all’ordine e ci chiese di consegnare i compiti. Inglese ed educazione civica passarono in un lampo, mentre io non pensavo ad altro che alle spiegazioni da dare a Jessica, sentendomi sulle spine per la possibilità che Edward potesse davvero ascoltare le mie parole attraverso i pensieri di Jess. Un potere come quello poteva essere davvero molesto, quando non serviva a salvarmi la vita.
Alla fine della seconda ora, la nebbia si era dissolta quasi del tutto, ma il cielo era ancora scuro, coperto di nuvole basse e opprimenti. Lo guardai e sorrisi.
Ovviamente, Edward aveva ragione. Quando entrai in classe per la lezione di trigonometria, Jessica era seduta in ultima fila, tanto agitata da rischiare di cadere dalla sedia. Mi accomodai di malavoglia accanto a lei, rassegnata e desiderosa di farla finita il più presto possibile.
«Dimmi!», ordinò, senza nemmeno aspettare che mi sedessi.
«Cosa vuoi sapere?».
«Cos’è successo ieri sera?».
«Mi ha portata a cena, poi mi ha accompagnata a casa».
Puntò uno sguardo torvo e scettico su di me. «Come hai fatto a tornare a casa così presto?».
«Guida come un pazzo. Ero terrorizzata». Speravo che lui fosse in ascolto.
«È stato una specie di appuntamento? Eravate d’accordo?».
Non ci avevo pensato. «No: sono stata molto sorpresa di incontrarlo».
Corrugò le labbra, delusa dalla palese onestà nella mia voce.
«Ma oggi ti ha accompagnata a scuola, no?».
«Sì... ma anche questa è stata una sorpresa. Ieri sera si è accorto che ero rimasta senza giacca».
«Perciò, uscirete ancora?».
«Si è offerto di accompagnarmi a Seattle, sabato, perché è convinto che il mio pick-up non ce la farà. Vale come un appuntamento?».
«Sì», annuì.
«Be’, allora sì».
«W-o-w». Gonfiò in tre sillabe quell’esclamazione, con tutta l’enfasi possibile. «Edward Cullen».
«Lo so». “Wow” era ancora poco.
«Aspetta!». Alzò le mani come un vigile. «Ti ha baciata?».
«No», mormorai, «non è come pensi».
Sembrava delusa. Anch’io, di sicuro.
«Pensi che sabato...», e mi guardò, curiosa, inarcando le sopracciglia.
«Ne dubito fortemente». Riuscii a stento a dissimulare il malcontento.
«Di cosa avete parlato?», sussurrò, esortandomi a darle altre informazioni. La lezione era iniziata, ma il professor Varner non badava a noi, le uniche due che ancora parlavano.
«Non so, Jess, un sacco di cose», risposi sottovoce. «Abbiamo parlato del saggio di inglese per un po’». Per poco, molto, molto poco. Due parole in croce.
«Ti prego, Bella», implorò lei, «qualche particolare in più».
«Be’... d’accordo, uno solo. Avresti dovuto vedere la cameriera: gli ha fatto una corte spietata. Ma lui non se l’è filata!». E se lui stava ascoltando, fatti suoi.
«Buon segno. Era carina?».
«Molto. E avrà avuto diciannove o vent’anni».
«Meglio ancora. Vuol dire che gli piaci».
«Penso di sì, ma è difficile dirlo. È sempre così criptico», aggiunsi a beneficio di Edward, con un sospiro.
«Non so dove trovi il coraggio di restare sola con lui», disse Jess a mezza voce.
«Perché?». Ero sorpresa, ma lei non comprese la mia reazione.
«Mette così... in soggezione. Io non saprei cosa dirgli». Fece una faccia strana, probabilmente ripensando a quella mattina o alla sera precedente, quando Edward l’aveva investita con la forza irresistibile del suo sguardo.
«A dire la verità, anch’io ho qualche problema di lucidità quando è nei paraggi».
«Oh, be’. È bello da non crederci, non c’è dubbio». Jessica fece spallucce, come se ciò giustificasse qualsiasi altro difetto. Perlomeno, secondo i suoi parametri.
«E poi, in lui, c’è molto altro».
«Davvero? Per esempio?».
Quanto avrei voluto restare zitta. Tanto quanto desideravo che Edward avesse scherzato, a proposito del leggere nella mente di Jessica.
«Non so come spiegarlo... Ma dietro la facciata è ancora più incredibile». Il vampiro che voleva essere buono, che andava in giro a salvare la vita alle persone per non sentirsi un mostro... Puntai lo sguardo verso la cattedra.
«Davvero?», ridacchiò.
La ignorai, fingendo di stare attenta al professor Varner.
«Perciò ti piace?». Non era intenzionata a desistere.
«Sì», tagliai corto.
«Voglio dire, ti piace davvero?».
«Sì», ripetei, e stavolta arrossii, sperando che i suoi pensieri non registrassero quel dettaglio.
Ne aveva abbastanza dei monosillabi. «Quanto ti piace?».
«Troppo», bisbigliai. «Più di quanto io piaccia a lui. Ma credo proprio di non poterci fare niente». Ormai arrossivo a ogni parola che mi sfuggiva.
Poi, grazie al cielo, il professor Varner rivolse una domanda a Jessica.
Per il resto della lezione non ebbe più possibilità di riprendere il discorso, e al suono della campanella cercai un diversivo.
«Durante inglese Mike chiedeva se tu mi avessi raccontato qualcosa di lunedì sera».
«Stai scherzando! E tu?», disse quasi boccheggiando. L’avevo presa totalmente alla sprovvista.
«Gli ho risposto che ti sei divertita parecchio... sembrava compiaciuto».
«Ripetimi tutto quello che vi siete detti, parola per parola!».
Passammo il resto del tragitto verso la lezione successiva a sezionare la struttura delle frasi, e dedicammo la maggior parte di spagnolo a descrivere nei particolari le espressioni sul viso di Mike. Non mi sarei prestata a quel terzo grado, se non fosse servito a tenere il discorso ben lontano da me.
Infine la campana dell’intervallo suonò. Il balzo che feci dalla sedia, la fretta con cui ficcai i libri nello zaino e la mia espressione entusiasta insospettirono Jessica.
«Oggi non mangi assieme a noi, vero?», chiese.
«Non penso». Non ero del tutto certa che non avrei avuto l’ennesima sorpresa.
Invece, ad aspettarmi fuori dalla porta della classe, appoggiato al muro - la cosa più simile a un dio greco che avessi mai visto -, c’era Edward. Jessica lanciò un’occhiata prima a me, poi al cielo, e si allontanò.
«A dopo, Bella». Il suo tono di voce era denso di sottintesi. Probabilmente avrei dovuto spegnere la suoneria del cellulare.
«Ciao». Edward sembrava divertito e irritato al tempo stesso. Era evidente, aveva ascoltato tutto.
«Ciao».
Non riuscii ad aggiungere altro, e lui non parlò - immagino che stesse prendendo tempo - fino alla mensa. Camminando al fianco di Edward in mezzo alla folla dell’ora di pranzo mi sembrava di tornare al primo giorno di scuola: ero al centro dell’attenzione.