Mi precedette nella coda, sempre zitto, ma senza smettere di lanciarmi occhiate pensierose. Sembrava che sul suo volto l’espressione irritata stesse cancellando quella divertita. Giocherellavo nervosamente con la zip della giacca a vento.
Si avvicinò al bancone e riempì un vassoio di cibo.
«Cosa fai? Non starai prendendo tutta quella roba per me?».
Scosse il capo e avanzò verso la cassa.
«Metà è per me, ovviamente».
Alzai un sopracciglio. Non me la dava a bere.
Lo seguii fino allo stesso tavolo a cui ci eravamo seduti la volta precedente. All’altro capo, alcuni studenti dell’ultimo anno ci squadravano stupiti. Edward non sembrava curarsene.
«Scegli pure», disse, porgendomi il vassoio.
«Sono curiosa...», dissi, prendendo una mela e rigirandomela tra le dita. «Come reagiresti se qualcuno ti sfidasse a mangiare del cibo?».
«Curiosa come al solito». Fece una smorfia e scosse il capo. Mi guardò di sottecchi, mentre prendeva un trancio di pizza dal vassoio e lo mordeva soddisfatto, masticandolo e ingoiandolo in un baleno. Io lo guardavo, incredula.
«Se qualcuno ti sfidasse a mangiare spazzatura potresti farlo, no?», chiese, con un filo di arroganza.
Mi si arricciò il naso dal ribrezzo. «Una volta è successo... una scommessa. Non era così male».
Rise. «La cosa non mi sorprende più di tanto». Fu distratto da qualcosa alle mie spalle.
«Jessica sta analizzando tutti i miei movimenti... più tardi ti farà un resoconto dettagliato». Mi offrì il resto della sua pizza. Il pensiero di Jessica riportò a galla un pizzico dell’irritazione che avevo letto sul suo viso.
Posai la mela e addentai il trancio di pizza, guardando altrove. Sapevo che stava per parlare.
«Perciò, la cameriera era carina?», chiese, ingenuamente.
«Non te ne sei accorto?».
«No, non ci ho fatto caso. Avevo altro per la testa».
«Poveretta». A quel punto potevo concedermi di essere magnanima.
«Una delle cose che hai detto a Jessica... be’, mi infastidisce un po’». Rifiutava di cambiare discorso. Sembrava quasi sgarbato, da sotto le ciglia mi rivolse uno sguardo inquieto.
«Non mi sorprende che tu abbia sentito qualcosa di spiacevole. Sai quel che si dice di chi origlia...».
«Ti ho avvertita che sarei rimasto in ascolto».
«E io ti ho avvertito che non avresti gradito conoscere tutti i miei pensieri».
«In effetti, mi avevi avvertito», la sua voce non si era addolcita. «Però, non credo tu abbia ragione fino in fondo. Voglio sapere sì ciò che pensi, e tutto. Soltanto, mi piacerebbe... che non pensassi certe cose».
Lo guardai, imbronciata. «Bella differenza».
«Ma non è questo il problema, al momento».
«E quale sarebbe?». Ci stavamo entrambi sporgendo sul tavolo, l’uno di fronte all’altra. Lui teneva le grandi mani bianche sotto il mento; io mi coprivo il collo con la destra. Mi sforzai di ricordare che eravamo in una sala mensa affollata, probabilmente piena di occhi curiosi. Era troppo facile cedere alla tentazione di lasciarci avvolgere dalla nostra piccola e lucida bolla privata.
«Sei davvero convinta di piacermi meno di quanto io piaccia a te?», mormorò facendosi più vicino e inchiodandomi con i suoi occhi intensi e dorati.
La mia mente si svuotò, non ricordavo neppure come si respira. Mi tornò il fiato soltanto dopo aver posato lo sguardo altrove.
«Lo stai rifacendo», dissi fra i denti.
Sgranò gli occhi, sorpreso. «Cosa?».
«Stai cercando di incantarmi», ammisi, tornando ad ammirarlo. Dovevo restare lucida.
«Ah», rispose, accigliato.
«Non è colpa tua», sospirai. «Non ci puoi fare niente».
«Mi vuoi rispondere?».
Abbassai lo sguardo. «Sì».
«Sì mi vuoi rispondere, o sì ne sei davvero convinta?». Riecco l’irritazione.
«Sì ne sono convinta». Tenevo il capo chino verso il tavolo, gli occhi fissi sulle false venature di legno stampate sul laminato. Il silenzio iniziava a pesare. Mi rifiutavo di essere io la prima a romperlo e resistevo con tutte le forze alla tentazione di sbirciare per cogliere l’espressione sul suo volto.
Infine fu lui a parlare, a bassa voce: «Ti sbagli».
Non sembrava affatto infuriato, anzi, era gentile.
«Non puoi esserne sicuro», sussurrai. Scossi il capo, ero piena di dubbi, il mio cuore batteva a singhiozzo, e non sapevo cos’avrei dato per credere alle sue parole.
«Cosa te lo fa pensare?». Mi squadrò con il suo sguardo liquido, color topazio, probabilmente nel vano tentativo di prelevare la verità direttamente dalla mia testa.
Lo fissai a mia volta, sforzandomi di restare lucida malgrado quel viso, ansiosa di spiegarmi con le parole giuste. Lo vedevo sempre più impaziente, cominciava a diventare scuro in volto per il mio silenzio. Alzai il dito della mano destra.
«Ci devo riflettere», insistetti. Soddisfatto dalla risposta promessa, si rilassò. Posai la mano sul tavolo, la congiunsi all’altra. Intrecciavo e scioglievo le dita, ma infine parlai.
«Be’, ovvietà a parte, a volte... non mi sento sicura - non sono capace di leggere nel pensiero, io - e ogni tanto ho la sensazione che mentre mi dici certe cose in realtà tu stia cercando di lasciarmi perdere». Era il riassunto migliore dell’inquietudine che talvolta le sue parole mi scatenavano dentro.
«Perspicace», sussurrò. Riecco l’angoscia, a confermare i miei timori. «Purtroppo, è proprio qui che ti sbagli», cercò di spiegarsi, ma all’improvviso strizzò le palpebre. «Cosa intendi per “ovvietà”?».
«Be’, guardami», dissi, ed era superfluo, perché già mi stava guardando. «Sono una ragazza assolutamente normale... Certo, a parte difetti come gli incidenti quasi mortali e una goffaggine degna di una disabile. E guarda te». Indicai lui e la sua stupefacente perfezione.
Alzò un sopracciglio, irritato, ma si rilassò all’istante e nei suoi occhi apparve uno sguardo intelligente. «Credo che tu non abbia una buona percezione di te stessa. Devo ammettere che quanto ai difetti ci hai azzeccato», rise sarcastico, «ma tu non hai sentito cos’hanno pensato tutti gli studenti maschi di questa scuola quando ti hanno vista la prima volta».
Sgranai gli occhi, stupita. «Non ci credo...», dissi, tra me e me.
«Per una volta fidati, se ti dico che sei l’esatto contrario della normalità».
Fui molto più imbarazzata che lusingata dall’occhiata con cui accompagnò le sue parole. Cercai di riprendere il filo originale del discorso.
«Ma io non sono intenzionata a lasciarti perdere», rimarcai.
«Non capisci? È la dimostrazione che ho ragione io. Ci tengo più di te, perché se ci riuscissi», e scosse il capo, come per accettare l’idea controvoglia, «se andarmene fosse la scelta migliore, sarei disposto a danneggiare me stesso, pur di non ferirti, pur di proteggerti».
Lo guardai, torva: «E non credi che sia lo stesso per me?».
«Non è a te che spetta questa scelta».
All’improvviso, il suo umore imprevedibile cambiò per l’ennesima volta: sfoderò un sorriso beffardo, devastante. «Certo, darti protezione sta diventando un lavoro a tempo pieno che richiede la mia presenza costante».
«Oggi nessuno ha cercato di farmi fuori». Gli ero grata per avere cambiato argomento. Non volevo più parlare di abbandono. Pur di averlo accanto, sarei stata disposta a mettermi spontaneamente in pericolo... Ma cancellai quel pensiero prima che potesse leggermelo negli occhi. Sarebbe stato un bel guaio.
«Non ancora», aggiunse.
«Non ancora». Avrei anche voluto controbattere, ma a quel punto desideravo che si aspettasse un’altra catastrofe.
«Ho un’altra domanda». Mostrava un certo contegno.
«Spara».
«Hai davvero bisogno di andare a Seattle, questo sabato, o era soltanto una scusa per evitare di dire no a tutti i tuoi ammiratori?».
Il ricordo mi fece storcere la bocca. «Guarda, non ti ho ancora perdonato per la faccenda di Tyler. È colpa tua se continua a illudersi di potermi invitare al ballo di fine anno».