«Oh, avrebbe trovato l’occasione per chiedertelo anche se non ci fossi stato io: morivo soltanto dalla voglia di vedere la tua reazione», disse, sghignazzando. Mi sarei arrabbiata, se vederlo ridere non fosse stato così affascinante. «Se te l’avessi chiesto io, avresti scaricato anche me?», domandò, senza smettere di ridere.
«Probabilmente no», confessai. «Ma all’ultimo momento avrei cancellato l’invito... avrei finto una malattia o una caviglia slogata».
«E perché mai?».
Scossi il capo mesta. «Immagino che tu non mi abbia mai vista in palestra, ma pensavo che avresti capito».
«Ti riferisci al fatto che non sei in grado di camminare su una superficie piana e solida senza inciampare?».
«Ovviamente».
«Non sarebbe un problema». Sembrava molto sicuro di sé. «Dipende tutto da chi guida». Sapeva che stavo per ribattere e non me ne lasciò il tempo. «Non mi hai ancora risposto: vuoi davvero andare a Seattle, o ti andrebbe se facessimo qualcos’altro?».
Finché il soggetto della frase era “noi”, avrei accettato qualsiasi alternativa.
«Sono aperta a tutte le proposte, ma devo chiederti un solo favore».
Sembrava allarmato, come sempre di fronte alle mie richieste vaghe. «Cosa?».
«Posso guidare io?».
Aggrottò le sopracciglia. «Perché?».
«Be’, prima di tutto perché quando ho detto a Charlie che sarei andata a Seattle, lui mi ha chiesto se fossi da sola, e visto che così era l’ho rassicurato. Se me lo chiedesse di nuovo non potrei mentirgli, ma non credo che lo farà: lasciare il pick-up a casa, però, lo porterebbe a sollevare la questione. In secondo luogo, la tua guida mi terrorizza».
Alzò gli occhi al cielo. «Con tutto ciò che in me potrebbe terrorizzarti, ti preoccupi di come guido». Scosse il capo, disgustato, e poi tornò serio. «Non vuoi dire a tuo padre che passerai la giornata con me?». La sua domanda sottintendeva qualcosa che non riuscivo a capire.
«Con Charlie, meno si dice, meglio è». Non intendevo discuterne. «E comunque, dove andremmo?».
«Ci sarà bel tempo, perciò dovrò restare lontano da sguardi indiscreti... e se ti va, puoi venire con me». Ancora una volta, la scelta era mia.
«Mi mostrerai quel che dicevi a proposito della luce solare?», chiesi, eccitata all’idea di scoprire un altro dei suoi misteri.
«Sì». Sorrise, e tacque. «Ma anche se non vuoi restare... sola con me, preferirei che tu non te ne andassi a Seattle per conto tuo. Tremo al solo pensiero dei guai in cui potresti cacciarti in una città così grande».
Mi stizzii. «Phoenix è tre volte Seattle, e solo quanto a popolazione. Le dimensioni...».
«Ma a quanto pare», mi interruppe, «a Phoenix non era ancora giunta la tua ora. Perciò preferirei che mi stessi accanto». Mi scoccò un’altra delle sue occhiate fiammeggianti.
Non ero in grado di ribattere né a quella né alle sue ragioni, e non ne avevo comunque motivo. «Si dà il caso che restare sola con te non mi dispiaccia affatto».
«Lo so», sospirò, rassegnato. «Però dovresti dirlo a Charlie».
«E perché mai dovrei?».
Il suo sguardo si fece severo. «Così avrò un briciolo di motivazione in più per riportarti a casa».
Ero imbarazzata. Ma dopo qualche istante di riflessione ero decisa: «Penso che correrò il rischio».
Sbuffò e guardò altrove, nervoso.
«Parliamo d’altro», suggerii.
«Di cosa vuoi parlare?». Era ancora irritato.
Diedi un’occhiata attorno per controllare che nessuno ci potesse udire. Mentre perlustravo la sala, incrociai lo sguardo di Alice, sua sorella, fermo su di me. Gli altri osservavano Edward. Tornai a lui in un baleno e gli rivolsi la prima domanda che mi passò per la testa.
«Perché sei andato a Goat Rocks, lo scorso fine settimana, a caccia? Charlie dice che ci sono gli orsi, non è un gran posto per fare trekking».
Mi fissò come se mi fosse sfuggito qualcosa di ovvio.
«Orsi?». Esitai, e lui fece un sorrisetto. «Be’, non è la stagione degli orsi», aggiunsi, per nascondere il turbamento.
«Le leggi sulla caccia regolano solo quella con le armi, se vuoi controlla pure».
Mi studiava divertito, mentre digerivo lentamente le sue parole.
«Orsi?», ripetei, con una certa difficoltà.
«Emmett va matto per il grizzly». Non si era scomposto più di tanto, ma pareva attentissimo alle mie reazioni. Cercai di darmi un tono.
«Mmm», dissi, addentando un altro trancio di pizza per poter distogliere gli occhi da lui. Masticai piano e presi un lungo sorso di Coca coprendomi il viso con il bicchiere.
«Allora», dissi dopo un istante, incontrando finalmente il suo sguardo ansioso, «il tuo preferito, qual è?».
Mi guardò di sbieco, e sulle sue labbra apparve una smorfia di disapprovazione. «Il puma».
«Ah», risposi, in tono educato e disinteressato, riafferrando la mia bibita.
«Ovviamente», continuò, con un tono di voce che scimmiottava il mio, «dobbiamo stare attenti all’impatto ambientale e cacciare con un certo giudizio. Di solito ci concentriamo sulle aree sovrappopolate di predatori, a qualunque distanza si trovino. Da queste parti c’è abbondanza di alci e cervi, e tanto basta, ma dov’è il divertimento?». Sorrise, malizioso.
«Eh, già, dove?», mormorai, dando un altro morso alla pizza.
«A Emmett piace andare a caccia di orsi all’inizio della primavera: appena usciti dal letargo sono più irritabili». Sorrise ripensando a qualche loro vecchia battuta.
«Non c’è niente di più divertente di un grizzly irritato, in effetti».
Sorrise e scosse il capo. «Per favore, dimmi quel che pensi veramente».
«Sto cercando di immaginare... ma non ci riesco. Come fate a cacciare gli orsi senza armi?».
«Be’, qualche arma l’abbiamo». Con un sorriso fulmineo e minaccioso mi mostrò i denti luccicanti. Mi sforzai di reprimere un brivido che potesse smascherarmi. «Non il genere di strumenti che i legislatori prendono in considerazione quando stendono i regolamenti di caccia. Se hai visto un documentario su come attaccano gli orsi, dovresti essere in grado di visualizzare Emmett».
Non riuscii a trattenere un altro brivido lungo la schiena. Sbirciai dall’altra parte della mensa, verso Emmett, lieta che non mi stesse osservando. Adesso i vigorosi fasci di muscoli che sfoggiava sul busto e sulle braccia avevano un’aria ancora più minacciosa.
Edward seguì il mio sguardo e soffocò una risata. Io lo fissai, nervosa.
«Anche tu somigli a un orso?», chiesi, a bassa voce.
«Più a un leone, così dicono», rispose piano. «Forse i nostri gusti rispecchiano il modo in cui cacciamo».
Cercai di sorridere. «Forse», gli fed eco. Avevo la testa piena di immagini inconciliabili tra loro. «Avrò mai il permesso di assistere?».
«Assolutamente no!». Il suo colorito si fece ancora più pallido del solito, e il suo sguardo divenne improvvisamente furioso. Io arretrai, stupita e - benché non volessi ammetterlo di fronte a lui - spaventata da quella reazione. Anche lui si era ritratto, incrociando le braccia.
«Troppo spaventoso per me?», chiesi, quando fui di nuovo in grado di controllare la mia voce.
«Se fosse questo, ti porterei con me stanotte», disse, con voce tagliente. «Quel che ti serve è una salutare dose di paura. Non vedo cosa potrebbe darti più beneficio».
«Ma allora, perché?», insistetti, senza badare alla sua espressione infuriata.
Per un minuto interminabile mi guardò, torvo.
«Più tardi», rispose, infine, e con un movimento leggiadro si alzò. «Siamo in ritardo».
Mi guardai attorno, sorpresa: aveva ragione, la mensa era quasi deserta. In sua compagnia, il tempo e lo spazio erano talmente sfocati da sfuggire alla mia percezione. Mi alzai di scatto dalla sedia, afferrando lo zaino che penzolava dallo schienale.
«D’accordo, più tardi». Non intendevo dimenticarmene.
11
Complicazioni
Entrammo insieme nel laboratorio di biologia, sotto gli sguardi di tutti. Ci accomodammo al tavolo degli esperimenti, e notai come Edward non restasse più a distanza di sicurezza, sull’orlo della seggiola. Anzi, seduto al mio fianco, quasi mi sfiorava con il gomito.