«Bene, mi dispiace molto di averti fatta arrabbiare». I suoi occhi arsero di sincerità per qualche istante - sgominando i battiti del mio cuore - e poi si rifecero giocosi. «E sarò sulla soglia di casa tua sabato mattina presto».
«Uhm, una misteriosa Volvo sul vialetto non ci aiuterà di certo, con Charlie».
Ora sorrideva, comprensivo. «Non ho detto che verrò in auto».
«Ma come...».
Mi interruppe: «Non preoccuparti. Ci sarò, senza macchina».
Lasciai perdere. Avevo una domanda più pressante.
«“Più tardi” è arrivato?», chiesi, con un tono eloquente.
Lui tornò serio. «Pensavo fosse più tardi».
Aspettavo, cercando di mantenere un’espressione educata.
Arrestò la macchina. Alzai lo sguardo, sorpresa: naturale, eravamo già di fronte a casa di Charlie, parcheggiati dietro il pick-up. Viaggiare con Edward era più facile se guardavo fuori solo quando tutto era finito. Tornai a osservarlo e vidi che mi studiava, come per valutarmi.
«Vuoi ancora sapere perché non ti posso portare a caccia?». Sembrava solenne, ma nei suoi occhi mi sembrava di leggere un’ombra di ironia.
«Be’, più che altro mi chiedevo il perché della tua reazione».
«Ti ho spaventata?». Sì, stava scherzando.
«No», mentii, ma non ci cascò.
«Ti chiedo perdono per averti terrorizzata», insistette, abbozzando un sorriso, ma subito dopo sbarazzandosi di ogni accento ironico: «È stato soltanto il pensiero della tua presenza... durante la caccia». Si irrigidì.
«Non sarebbe il caso?».
Parlò senza smettere di digrignare: «Nemmeno per scherzo».
«Perché?».
Fece un respiro profondo e osservò, al di là del parabrezza, le nuvole dense e veloci che sembravano schiacciarci, quasi a portata di mano.
Iniziò a parlare controvoglia, lentamente: «Quando cacciamo, ci abbandoniamo ai sensi... e non è la mente a governarci. Seguiamo soprattutto l’olfatto. Se nel perdere il controllo sentissi che sei vicina...». Scosse la testa, senza staccare lo sguardo assorto dalle nuvole dense.
Cercai con tutte le forze di mantenermi calma, aspettandomi l’occhiata fulminea che avrebbe giudicato la mia reazione. La mia espressione era impenetrabile, quando arrivò.
Ma i suoi occhi non si staccarono dai miei, e il silenzio si faceva sempre più denso, e diverso. L’atmosfera si fece sovraccarica: sotto il suo sguardo ostinato, l’elettricità che avevo percepito quella mattina riprese a vibrare. Solo quando mi sentii quasi mancare, mi accorsi che stavo trattenendo il respiro. Quando ruppi il silenzio espirando in un tremito, Edward chiuse gli occhi.
«Bella, credo che a questo punto dovresti rientrare». La sua voce era bassa e roca adesso, lo sguardo di nuovo tra le nuvole.
Aprii la portiera, e il vento artico che invase l’auto mi aiutò a riprendere lucidità. Timorosa di inciampare, rintronata com’ero, poggiai il piede con attenzione e richiusi la portiera senza guardare indietro. Il ronzio del finestrino elettrico mi fece voltare.
«Ah, Bella?», mi chiamò con voce più serena. Si sporse dal finestrino aperto con la traccia di un sorriso sulle labbra.
«Sì?».
«Domani è il mio turno».
«Per cosa?».
Sfoderò un sorriso ampio e luminoso. «Per le domande».
E poi se ne andò, accelerando lungo la strada e dileguandosi dietro l’angolo, prima ancora che potessi riordinare le idee. Entrai in casa sorridendo. Se non altro, era evidente che il giorno dopo ci saremmo rivisti.
Quella sera, come al solito, Edward popolò i miei sogni. Il clima del mio inconscio, però, era cambiato. Agitata dalla stessa elettricità che aveva attraversato il pomeriggio, mi girai e rigirai nel letto senza sosta, svegliandomi spesso. Solo nelle prime ore del mattino mi lasciai andare a un sonno profondo e senza sogni.
Al risveglio ero ancora stanca e nervosa. Infilai un dolcevita marrone e gli immancabili jeans, sospirando mentre sognavo a occhi aperti canottiere e pantaloni corti. La colazione fu il solito evento tranquillo. Charlie si preparò le uova fritte, io la mia tazza di cereali. Chissà se si ricordava di ciò che avrei fatto sabato. Rispose alla mia domanda silenziosa alzandosi da tavola per sciacquare il suo piatto.
«A proposito di sabato...», esordì, attraversando la cucina e aprendo l’acqua del lavandino.
Ero già in imbarazzo. «Sì, papà?».
«Sei sempre decisa ad andare a Seattle?».
«I miei piani sarebbero quelli». Storsi il naso, il mio ultimo desiderio era di rispondergli fabbricando con scrupolo qualche mezza verità.
Spruzzò il detersivo sul piatto e lo strofinò con la spugna. «E sei sicura di non riuscire a tornare in tempo per il ballo?».
«Papà, al ballo non ci vado». Lo guardai torva.
«Nessuno ti ha invitata?». Provava a nascondere la preoccupazione concentrandosi sul piatto da lucidare.
Cercai di non entrare nel campo minato. «Gli inviti spettano alle ragazze».
«Ah». Si fece serio, mentre asciugava.
Lo capivo. Essere padre è senz’altro difficile: vivere nel timore che tua figlia incontri un ragazzo che le piace e allo stesso tempo aver paura che non lo incontri. Che cosa tremenda, pensai con un brivido, se Charlie avesse lontanamente sospettato cosa fosse colui che in realtà mi piaceva.
Poi mi salutò e uscì, e io salii al piano di sopra a lavarmi i denti e a prendere i libri. Dopo aver sentito il rumore dell’auto della polizia che se ne andava, mi bastò aspettare qualche secondo prima di sbirciare dalla finestra. L’auto metallizzata era già nel vialetto, al posto di quella di Charlie. Scesi le scale di corsa e mi precipitai fuori dalla porta, chiedendomi quanto a lungo avremmo continuato con quella bizzarra routine. Desideravo che non finisse mai.
Mi aspettava in macchina, apparentemente distratto mentre giravo la chiave nella toppa, senza preoccuparmi di chiudere il catenaccio. Mi avvicinai all’auto, trattenendomi un istante imbarazzata, prima di aprire la portiera e salire. Era sorridente, rilassato, e come al solito perfetto e bellissimo, da star male.
«Buongiorno». Che voce vellutata. «Oggi come stai?». I suoi occhi perlustrarono il mio viso, come se quella domanda fosse più che un semplice gesto di cortesia.
«Bene, grazie». In sua compagnia stavo sempre bene, molto, più che bene.
Si soffermò sulle mie occhiaie. «Sembri stanca».
«Non riuscivo a dormire», confessai, passandomi automaticamente i capelli sulla spalla a mo’ di protezione.
«Neanch’io», disse, ironico, mentre avviava il motore. Mi stavo abituando a quelle fusa tranquille. Tornare a guidare il pick-up mi avrebbe assordata e terrorizzata.
Scoppiai a ridere. «Non c’è dubbio. Diciamo che avrò dormito poco più di te».
«Ci scommetto».
«E tu, cos’hai fatto ieri sera?».
Rise. «Alt. Oggi le domande spettano a me».
«Ah, d’accordo. Cosa vuoi sapere?». Non riuscivo a immaginare cosa trovasse di tanto interessante in me.
«Qual è il tuo colore preferito?», chiese, compassato.
Non sapevo cosa rispondere. «Cambia ogni giorno».
«Oggi qual è?». La sua aria era ancora solenne.
«Probabilmente il marrone». Di solito mi vestivo seguendo l’umore.
Dimenticò l’espressione seria e soffocò una risata. «Marrone?», chiese, scettico.
«Certo. Il marrone è caldo. Ho nostalgia del marrone. Tutto ciò che in teoria è marrone - tronchi d’albero, rocce, terra - da queste parti è coperto di roba verde e viscida».
Sembrava affascinato dalla mia breve filippica. Rimase zitto a riflettere per un istante, fissandomi negli occhi.
«Hai ragione», concluse, tornato serio, «il marrone è caldo». Si avvicinò, veloce ma in qualche modo esitante, per risistemarmi i capelli dietro le spalle.
Eravamo già a scuola. Si voltò di nuovo dal mio lato, impegnato nella manovra di parcheggio.
«Cosa c’è in questo momento nel tuo lettore CD?», chiese con tono grave come se stesse pretendendo la confessione di un’omicida.