Ricordai di non avere mai rimesso a posto il CD che mi aveva regalato Phil. Quando gli dissi il nome della band, sorrise di sbieco con una curiosa espressione. Aprì uno scompartimento alloggiato sotto il lettore CD dell’autoradio, dai trenta e più compact disc ammassati in quello spazio esiguo ne estrasse uno e me lo sventolò sotto il naso.
«Da Debussy a questo?». Alzò un sopracciglio.
Era lo stesso disco. Ne esaminai la copertina familiare, tenendo basso lo sguardo.
Continuò così per tutto il giorno. Mentre mi accompagnava alla lezione di inglese, quando mi venne a prendere dopo spagnolo, durante tutta l’ora della pausa pranzo, mi fece domande senza sosta sui dettagli più insignificanti della mia vita. Quali film mi piacevano o non sopportavo, i pochi posti che avevo visitato e i tanti che avrei desiderato vedere, e i libri soprattutto, domande senza fine sui libri.
Non ricordavo un’altra occasione in cui avessi parlato così tanto. Spesso mi sentivo in imbarazzo, ero sicura di annoiarlo. Ma la sua espressione assorta e l’interminabile sequela di domande mi obbligavano a continuare. Si trattava perlopiù di curiosità innocenti e discrete. Solo alcune stuzzicarono la mia facilità ad arrossire. Ma ogni mio minimo rossore dava il via a un nuovo giro di domande.
Come quando mi chiese quale fosse la mia pietra preferita, e risposi «topazio» senza nemmeno pensarci. Mi stava tartassando, subissandomi con una velocità tale da farmi sentire in uno di quei test psicologici in cui si risponde con la prima parola che passa per la testa. Ero sicura che avrebbe continuato imperterrito a seguire la lista che aveva in mente, di qualunque genere fosse, se non mi avesse vista arrossire. Mi ero vergognata perché fino a poco tempo prima la mia pietra preferita era stata il granato. E guardando i suoi occhi di topazio era impossibile non ricordare perché avessi cambiato idea. Ovviamente, non si diede per vinto finché non confessai il motivo del cambiamento.
«Dimmelo», ordinò infine, dopo che i tentativi di persuasione erano falliti; e fallivano solo perché stavo ben attenta a non incrociare il suo sguardo.
«È il colore dei tuoi occhi, oggi», sospirai, senza distogliermi dalle mani che giocherellavano con una ciocca di capelli. «Dovessi chiedermelo tra due settimane ti risponderei che è l’onice». Grazie alla mia onestà involontaria avevo lasciato trapelare più informazioni del necessario, ed ero preoccupata che scatenassero la solita strana rabbia che nasceva quando, incespicando, rivelavo con troppa chiarezza la mia ossessione per lui.
Ma il suo silenzio fu molto breve.
«Quali sono i tuoi fiori preferiti?». E via con un’altra raffica.
Sospirai di sollievo e proseguii con la psicoanalisi.
L’ora di biologia fu l’ennesima complicazione. Edward continuò il suo quiz finché il professor Banner non entrò in classe, portandosi dietro il solito trabiccolo per gli audiovisivi. Mentre l’insegnante si avvicinava all’interruttore per spegnere la luce, mi accorsi che Edward allontanava impercettibilmente la sedia. Non servì a nulla. Appena si fece buio, riecco l’elettricità del giorno prima, lo stesso desiderio di cercarlo, lì accanto a me, di toccare la sua pelle fredda.
Mi allungai sul banco, appoggiando il mento alle braccia conserte e afferrai i bordi del tavolo con le dita nascoste, sforzandomi di combattere l’istinto irrazionale che mi sconvolgeva. Non osavo osservarlo, temevo che se ne avessi incrociato gli occhi sarebbe stato ancora più difficile mantenere il controllo. Provai sinceramente a guardare il filmato, ma alla fine dell’ora non ne ricordavo nemmeno un fotogramma. Di nuovo, quando il professor Banner riaccese le luci sospirai di sollievo e mi girai verso Edward: mi guardava, una luce ambigua negli occhi.
Si alzò in silenzio e si fermò ad aspettarmi, immobile. Mi accompagnò in palestra senza dire una parola, come il giorno prima. E come il giorno prima, mi accarezzò il viso, muto - ma stavolta con il dorso della mano fredda, dalla tempia al mento - prima di voltarsi e sparire.
L’ora di ginnastica passò in fretta: feci da spettatrice all’assolo di Mike durante le partite di badminton. Non mi rivolse la parola, forse per reazione alla mia espressione vuota, forse perché era ancora arrabbiato dopo il bisticcio del giorno prima. Una piccola parte del mio cervello l’aveva presa male. Ma non riuscivo a concentrarmi su di lui.
Dopo la lezione corsi a cambiarmi, in fretta e furia e un po’ in ansia, conscia che prima avessi finito, prima avrei ritrovato Edward. I miei gesti erano più goffi del solito, ma alla fine riuscii ad andarmene e, quando lo vidi, provai lo stesso sollievo di sempre. Sul mio volto sbocciò automaticamente un gran sorriso. Lui contraccambiò, prima di tuffarsi nell’ennesimo interrogatorio.
Tuttavia, rispondere a quella nuova serie di domande fu più difficile. Voleva sapere cosa mi mancasse di più di Phoenix, e insisteva nel farsi descrivere i particolari di ciò che non gli era familiare. Restammo di fronte a casa di Charlie per ore, mentre il cielo si oscurava e un diluvio improvviso ci assaliva.
Cercai di descrivere cose impossibili, come l’odore di creosoto: amaro, leggermente resinoso, ma piacevole; il suono acuto e lamentoso delle cicale in luglio; gli alberi spogli, leggeri come piume; l’ampiezza del cielo, che si stendeva bianco e blu da un capo all’altro dell’orizzonte, disturbato a malapena dalle basse montagne coperte di rocce vulcaniche violacee. Il difficile era spiegare perché tutto ciò mi apparisse così bello: giustificare una bellezza che non dipendeva dalla vegetazione rada e spinosa che spesso sembrava mezzo morta, una bellezza legata più alle forme della terra spazzata dal vento, alle conche vuote delle vallate tra i profili marcati delle colline arse continuamente dal sole. Mi ritrovai a dover accompagnare le mie descrizioni con grandi gesti.
Nel suo modo tranquillo e pacato di indagare, mi fece parlare senza sosta, e alla luce fioca del temporale dimenticai qualsiasi imbarazzo per il fatto che stavo monopolizzando la conversazione. Conclusa la descrizione della mia stanza disordinata a Phoenix, lui rimase in silenzio, anziché rispondere con un’altra domanda.
«Hai finito?», chiesi, sollevata.
«Neanche per sogno... ma tra poco tornerà tuo padre».
«Charlie!», esclamai in un fiato, ricordandomi improvvisamente della sua esistenza. Guardai il cielo scuro e gonfio di pioggia, senza riuscire a leggerlo. «Quanto è tardi?», mi chiesi ad alta voce, controllando l’orologio. Ne rimasi sorpresa: Charlie sarebbe arrivato nel giro di qualche minuto.
«È il crepuscolo», mormorò Edward, lo sguardo puntato a ovest, verso un orizzonte coperto di nubi. Sembrava pensieroso, come se la sua mente vagasse chissà dove. Rimasi a osservarlo, mentre i suoi occhi si perdevano là fuori, al di là del parabrezza.
All’improvviso scivolarono di nuovo nei miei.
«Per noi è il momento più sicuro della giornata», disse, rispondendo alla domanda silenziosa del mio sguardo. «L’ora più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste... la fine di un altro giorno, il ritorno della notte. L’oscurità è troppo prevedibile, non credi?». Sorrise malinconico.
«A me la notte piace. Se non ci fosse il buio non vedremmo le stelle. Be’, non che qui si vedano granché».
Rise, e l’atmosfera si alleggerì.
«Charlie tornerà tra qualche minuto. Perciò, a meno che tu non voglia dirgli che sabato verrai con me...». Mi guardava di sottecchi.
«Grazie, ma... no, grazie». Raccolsi i libri, ritrovandomi indolenzita dalla sosta prolungata sul sedile. «Quindi, domani tocca a me?».
«Certo che no!». Si atteggiò da irritato, per scherzo. «Ti ho detto che non ho ancora finito, no?».
«E che altro manca?».
«Lo scoprirai domani». Si allungò ad aprirmi la portiera, e la sua vicinanza improvvisa mi scatenò palpitazioni frenetiche.
Ma la sua mano restò immobile.
«Cattive notizie», bofonchiò.
«Che c’è?». Notai che teneva la mascella contratta e il suo sguardo era inquieto.