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«Caspita, non sapevo che giocassi a badminton».

«Be’, a dire la verità non sono capace, ma il mio compagno è molto bravo».

«Chi è?». Cercava di mostrare interesse.

«Ehm... Mike Newton», risposi, di malavoglia.

«Ah, sì... mi avevi detto che il figlio dei Newton era tuo amico». Sollevò la testa. «Brava gente, la sua famiglia». Rimase qualche istante a meditare. «Perché non hai invitato lui al ballo di sabato?».

«Papà! Ha appena iniziato a uscire con la mia amica Jessica. E poi lo sai anche tu che non so ballare».

«Ah, sì», mugugnò. Poi sorrise, per scusarsi. «Perciò non è un problema se sabato sei fuori casa... Io ho organizzato una battuta di pesca con i ragazzi della centrale. Le previsioni dicono che farà davvero caldo. Ma se preferisci rimandare il viaggio finché non trovi qualcuno che ti accompagni, posso restare a casa. So bene che ti lascio un po’ troppo spesso qui da sola».

«Papà, ti stai comportando benissimo». Sorrisi, sperando che non cogliesse il mio sollievo. «La solitudine non è mai stata un problema, per me... ti somiglio troppo». Strizzai l’occhio, e lui rispose con il suo sorriso increspato di piccole rughe.

Quella notte dormii meglio, ero troppo stanca per sognare. Quando mi svegliai, alla luce grigio perla del mattino, mi sentivo beata. Il nervosismo della serata con Billy e Jacob non mi toccava più: decisi di dimenticarmene del tutto. Mi sorpresi a fischiettare, mentre mi sistemavo il fermacapelli, scendendo dalle scale. Charlie se ne accorse.

«Siamo di buonumore, stamattina?», commentò a colazione.

Mi strinsi nelle spalle. «È venerdì».

Cercai di sbrigarmi, per essere pronta non appena Charlie fosse uscito. Avevo preparato lo zaino, indossato le scarpe, lavato i denti, ma malgrado mi fossi affacciata alla porta di casa nell’esatto istante in cui l’auto della polizia si allontanava, Edward era già lì: mi aveva preceduto come sempre. Mi aspettava sulla sua auto metallizzata, con i finestrini abbassati e il motore spento.

Stavolta salii sull’auto senza esitazioni, svelta, impaziente di rivederlo. Mi rivolse il suo solito sorriso sghembo, che mi fermò il respiro e il cuore. Non riuscivo a immaginare un angelo più splendido. In lui non c’erano imperfezioni da correggere.

«Dormito bene?», chiese. Chissà se si rendeva conto di quanto fosse affascinante la sua voce.

«Sì. E la tua nottata, com’è stata?».

«Piacevole». Sorrideva, divertito, come per una battuta che non potevo capire.

«Posso chiederti cosa hai fatto?».

«No». Fece un sorriso. «Oggi è ancora mio».

Quel giorno l’interrogatorio riguardava le persone: notizie su Renée, sui suoi hobby, su ciò che facevamo assieme nel tempo libero. E poi l’unica nonna che avevo conosciuto, le mie poche amicizie di scuola, e un momento di imbarazzo quando mi chiese dei ragazzi con cui ero uscita. Fortunatamente, non essendo mai uscita sul serio con nessuno, quella conversazione non poteva che durare ben poco. La povertà della mia vita sentimentale lo stupì, come era successo con Jessica e Angela.

«Perciò non sei mai uscita con qualcuno che ti piaceva?», chiese, tanto serio da farmi domandare a cosa stesse pensando.

Io fui sfacciatamente sincera: «Non a Phoenix».

Il suo sorriso si tese.

A quel punto della conversazione eravamo già arrivati all’ora della mensa. La giornata era trascorsa fulminea, come d’abitudine ormai. Approfittai della pausa per addentare la mia ciambella.

«Forse oggi era meglio che tu venissi da sola», disse, di punto in bianco, mentre masticavo.

«Perchè?».

«Dopo pranzo vado via con Alice».

«Oh». Che sorpresa, e che delusione. «Non c’è problema, farò una passeggiata».

Mi fissò con aria torva e impaziente. «Non intendo farti tornare a casa a piedi. Andiamo a prendere il pick-up e lo portiamo qui».

«Non ho le chiavi», sospirai. «Davvero, non è un problema». Il problema era stare lontana da lui.

Scosse la testa. «Il tuo pick-up sarà qui e la chiave sarà nel quadro, a meno che tu non tema che qualcuno lo rubi». Al pensiero di un tale furto, scoppiò a ridere.

«D’accordo», risposi, a denti stretti. Ero piuttosto sicura che la chiave si trovasse nella tasca del paio di jeans che avevo indossato il mercoledì precedente, ammassati assieme ad altri vestiti in lavanderia. Anche se avesse fatto irruzione in casa mia, ammesso che ci stesse pensando, non l’avrebbe mai trovata. Prese la mia risposta come una sfida. E fece una boccaccia, sicuro di sé.

«Dove andate?», chiesi, nella maniera più disinvolta possibile.

«A caccia», rispose, torvo. «Se voglio restare solo con te domani, devo prendere tutte le precauzioni possibili». La sua espressione si fece imbronciata... e implorante. «Ricorda che puoi sempre annullare la nostra uscita».

Abbassai lo sguardo, temendo il potere di persuasione dei suoi occhi. Rifiutavo di lasciarmi convincere ad aver paura di lui, malgrado il rischio fosse reale. Non m’importa, ripetevo tra me.

«No», sussurrai, guardandolo, «non posso».

«Forse hai ragione», mormorò tetro. I suoi occhi si facevano sempre più scuri.

Cambiai discorso: «A che ora ci vediamo, domani?». Ero già depressa, al pensiero di doverlo salutare di lì a poco.

«Dipende. È sabato, non vuoi dormire un po’ più a lungo?».

«No», risposi troppo in fretta. Lui non riuscì a trattenere un sorriso.

«Al solito orario, allora. Ci sarà Charlie?».

«No, domani va a pesca». Mi illuminai, al pensiero di tutte quelle coincidenze fortunate.

La sua voce tornò fredda. «E se non torni a casa, cosa penserà?».

«Non ho idea», risposi, senza scompormi. «Di solito il sabato faccio il bucato. Penserà che sono caduta nella lavatrice».

Mi lanciò un’occhiataccia, che ricambiai. La sua rabbia faceva molta più scena della mia.

«Di cosa vai a caccia, stanotte?», chiesi, quando fui sicura di avere perso la gara di occhiatacce.

«Quello che troviamo nel bosco. Non ci allontaneremo». Sembrava lusingato dalla mia allusione disinvolta alla sua realtà segreta.

«Perché ti fai accompagnare da Alice?».

«È l’unica che mi... incoraggia». Si rabbuiò.

«E gli altri?», chiesi timidamente. «Cosa dicono?».

Per un istante corrugò la fronte. «Perlopiù sono increduli».

Lanciai un breve sguardo dietro di me ai suoi fratelli. Erano tutti seduti al solito posto, nelle stesse posizioni in cui li avevo visti la prima volta, con lo sguardo perso nel vuoto. Però erano in quattro: il loro fratello bellissimo dai capelli di bronzo era seduto di fronte a me e mi guardava, inquieto.

«Non gli piaccio», commentai.

«Non è questo il problema», rispose, ma il suo sguardo fu troppo innocente. «Non capiscono perché mi intestardisca con te».

Feci una smorfia. «Nemmeno io, se è per questo».

Edward scosse la testa lentamente, e alzò gli occhi al cielo, prima di incrociare i miei. «Te l’ho detto: tu hai un’idea completamente sbagliata di te stessa. Sei diversa da chiunque altra abbia conosciuto. Mi affascini».

Spalancai gli occhi, sicura che stesse scherzando.

Sorrise, cercando di decifrare la mia espressione. «Grazie a certe mie qualità», mormorò, toccandosi con grazia la fronte, «ho una comprensione della natura umana superiore alla media. Le persone sono prevedibili. Ma tu... tu non fai mai ciò che mi aspetto. Mi cogli sempre di sorpresa».

Tornai a osservare i suoi fratelli, imbarazzata e delusa. Evidentemente per lui ero una sorta di esperimento scientifico. Mi sentivo ridicola per avere sperato che potesse essere diverso.

«E fin qui, spiegare è molto facile», proseguì. Sentivo i suoi occhi addosso, ma non avevo il coraggio di guardare, perché temevo che avrebbe letto il tormento nei miei. «Ma c’è di più... e non è facile da dire a parole...».

Mentre parlava, continuavo a fissare i Cullen. All’improvviso, Rosalie, la bionda mozzafiato, si voltò a guardarmi. No, non a guardarmi... a incenerirmi, con un’occhiata cupa e minacciosa. Avrei voluto distogliere lo sguardo, ma rimasi ipnotizzata finché Edward non si interruppe per emettere un ringhio rabbioso e soffocato. Sembrava il sibilo di un serpente.