Rosalie si voltò e mi liberò dalla sua presa. Cercai conforto in Edward: avevo gli occhi sbarrati, per la confusione e la paura che sapevo lui vi avrebbe letto.
Cercò di spiegare, nervoso: «Mi dispiace. È soltanto preoccupata... Non sarebbe pericoloso soltanto per me, se dopo aver passato così tanto tempo assieme sotto gli occhi di tutti...», abbassò lo sguardo.
«Se?».
«Se dovesse finire... male». Si prese la testa fra le mani, come quella sera a Port Angeles. Soffriva, era chiaro; avrei voluto consolarlo, ma non sapevo come. Ero tentata di afferrare la sua mano, stesi la mia fino a lui ma rinunciai, temendo di peggiorare le cose. Lentamente mi resi conto che le sue parole avrebbero dovuto farmi paura. Aspettai che tale paura arrivasse, ma non sentivo altro che la pena per il suo tormento. E la frustrazione, una frustrazione per essere stata interrotta da Rosalie mentre lui stava per dire chissà cosa. Non sapevo come riprendere il discorso. Si teneva ancora il capo tra le mani.
Cercai di parlare senza scompormi. «È ora di andare?».
«Sì». Mostrò il viso, prima serio, poi sorridente. «Probabilmente è meglio così. Ci restano ancora quindici minuti di quel maledetto filmato da vedere durante l’ora di biologia e non penso che li sopporterei».
Accanto a lui, a sorpresa, spuntò Alice, con i suoi capelli neri corvini, corti e disordinati sopra il viso squisito da elfo. Era sottile come un giunco, aggraziata anche quando restava ferma.
La salutò senza staccare gli occhi da me: «Alice».
«Edward», rispose lei, con una voce acuta da soprano, fascinosa quasi come quella del fratello.
«Alice, Bella... Bella, Alice». Ci presentò con un gesto disinvolto della mano e un sorriso obliquo.
«Ciao, Bella». Il suo sguardo acceso di ossidiana era indecifrabile, ma il sorriso sembrava amichevole. «Piacere di conoscerti, finalmente».
Edward la fulminò con uno sguardo.
«Ciao, Alice», mormorai, timida.
«Sei pronto?», chiese lei al fratello.
Lui rispose con un certo distacco: «Quasi. Ci vediamo alla macchina».
Lei se ne andò senza aggiungere altro. Provai un crampo acuto di gelosia per quella camminata così fluida e sinuosa.
«Devo augurarvi “buon divertimento”, o è l’emozione sbagliata?», chiesi, rivolgendomi a Edward.
«No, “divertitevi” può andar bene». Sorrise.
«Allora divertitevi». Mi sforzavo di essere entusiasta. Ma non ero credibile, ovviamente.
«Ci proverò. E tu, per favore, cerca di sopravvivere».
«Sopravvivere a Forks... che sfida».
«Per te lo è». Si fece serio: «Promettilo».
«Prometto che cercherò di sopravvivere. Stasera faccio il bucato, una missione piena di incognite».
«Non cadere nella lavatrice».
«Farò del mio meglio».
Ci alzammo entrambi.
«Ci vediamo domani», sospirai.
«Per te è un’eternità, vero?».
Annuii, seria.
«A domattina», promise, con il suo sorriso sghembo. Si sporse per accarezzarmi ancora la guancia. Poi si voltò e se ne andò. Rimasi a guardarlo finché non sparì.
Ero tentata di saltare il resto delle lezioni, perlomeno quella di ginnastica, ma l’istinto mi avvertì che era meglio cambiare idea. Sapevo che se fossi scomparsa proprio allora, Mike e gli altri avrebbero dedotto che ero assieme a Edward. Ed Edward si preoccupava di non dare a vedere quanto tempo passava con me... nel caso fosse andata male. Ma all’eventualità non volevo nemmeno pensare; piuttosto, dovevo concentrarmi sul modo migliore di evitargli complicazioni.
Il mio intuito mi diceva che quel sabato sarebbe stato decisivo, e percepivo che anche per Edward fosse così. La nostra relazione non poteva continuare in quel modo, in equilibrio sulla punta di un coltello. Prima o poi saremmo caduti, da una parte o dall’altra della lama, e ciò dipendeva esclusivamente dalle sue scelte, o dai suoi istinti. Io avevo preso una decisione prima ancora di rendermene conto razionalmente ed ero pronta a rispettarla fino in fondo. Perché niente era per me più terrificante, più straziante, del pensiero di allontanarmi da lui. Era impossibile.
Tornai in classe, ligia al dovere. La lezione di biologia passò senza lasciare traccia: ero troppo occupata a pensare al giorno dopo. Durante l’ora di ginnastica, Mike ricominciò a parlarmi, e mi augurò di passare una buona giornata a Seattle. Gli spiegai scrupolosamente che ero preoccupata per il pick-up e che avevo cancellato la gita.
«Vieni al ballo con Cullen?», chiese allora rabbuiandosi.
«No, non verrò affatto al ballo».
«E cosa fai?», chiese, con fin troppa curiosità.
Un impulso naturale mi spingeva a dirgli di togliersi dalle scatole. Invece, mentii spudoratamente.
«Il bucato, dopodiché studierò per il test di trigo, che ho paura di non passare».
«E Cullen ti aiuterà, a studiare?».
«Edward», sottolineai per bene il nome, «non mi aiuterà a studiare. Trascorre il fine settimana da qualche parte fuori città». Notai con sorpresa che le bugie uscivano con più naturalezza del solito.
«Ah». Alzò lo sguardo. «Be’, potresti venire lo stesso al ballo assieme a noi. Sarebbe fico... balleremmo tutti con te».
Immaginarmi l’espressione di Jessica mi rese più velenosa di quanto fosse lecito.
«Non verrò al ballo, Mike, okay?».
«Va bene». Tornò al suo broncio. «Era solo una proposta».
Quando finalmente le lezioni terminarono, uscii nel parcheggio senza entusiasmo. Non avevo granché voglia di tornare a casa a piedi, ma non vedevo come Edward avrebbe potuto recuperare il pick-up. D’altro canto, iniziavo a credere che per lui niente fosse impossibile. E tale intuizione si dimostrò fondata: trovai il pick-up proprio nello spiazzo in cui Edward aveva parcheggiato la Volvo quel mattino. Scossi il capo, incredula, spalancai la portiera e vidi la chiave nel quadro.
Sul sedile c’era un biglietto piegato. Salii, richiusi la portiera e lo aprii. Erano soltanto due parole, vergate dalla sua grafia elegante.
Stai attenta.
Il rombo del pick-up che riprendeva vita mi spaventò. Risi di me stessa.
Giunta a casa, trovai la serratura della porta chiusa e il catenaccio aperto, come l’avevo lasciato. Entrai e corsi subito in lavanderia. Anche quella sembrava inviolata. Cercai i jeans nel mucchio, li trovai e controllai le tasche. Vuote. Forse, in fin dei conti, avevo appeso la chiave al suo posto.
Assecondando lo stesso istinto che aveva scatenato le bugie dette a Mike, telefonai a Jessica con la falsa scusa di augurarle buona fortuna per il ballo. Quando ricambiò per la mia giornata con Edward, risposi che avevo annullato la gita. Fu molto più dispiaciuta di quanto un’osservatrice esterna avrebbe dovuto essere. La salutai poco dopo.
A cena, Charlie era distratto, forse era preoccupato per questioni di lavoro o per una partita di basket; in fin dei conti, forse si stava soltanto godendo le lasagne; con Charlie non si poteva mai dire.
«Sai, papà...», dissi, interrompendo il suo sogno a occhi aperti.
«Che c’è, Bell?».
«Penso che abbia ragione tu, riguardo a Seattle. Aspetterò che Jessica o qualcun’altra venga con me».
Fu sorpreso: «Ah, d’accordo. Vuoi che resti a casa con te, allora?».
«No, papà, non cambiare i piani. Ho un milione di cose da fare... i compiti, il bucato... devo andare in biblioteca e a comprare le verdure. Andrò avanti e indietro tutto il giorno... Tu vai e divertiti».
«Sicura?».
«Sicura, papà. E poi, il livello di pesce nel freezer si sta abbassando paurosamente: abbiamo scorte solo per due, massimo tre anni».
«Vivere con te è una pacchia, Bella». Sorrise.
«Posso dire lo stesso di te», risposi, con una risata forzata alla quale, per fortuna, non diede peso. Mi sentivo tanto in colpa per quell’inganno da avere quasi la tentazione di seguire il consiglio di Edward e confessare tutto a Charlie. Quasi.