Выбрать главу

Dopo cena, piegai i vestiti e preparai un altro carico per l’asciugatrice. Purtroppo, era il genere di mansione che mi teneva occupate soltanto le mani. La mia mente aveva decisamente troppo tempo libero e ne stavo perdendo il controllo. Fluttuavo tra un’impazienza così intensa da farmi quasi male, e una paura fastidiosa che punzecchiava la mia determinazione. Ormai avevo scelto, dovevo prenderne atto, e non sarei tornata sui miei passi. Leggevo e rileggevo il biglietto, per assorbire le due semplici parole scritte da Edward. Vuole che io stia al sicuro, mi ripetevo senza sosta. Mi dovevo aggrappare alla convinzione che, alla fine, quel desiderio avrebbe prevalso sugli altri. E poi qual era l’alternativa... eliminarlo dalla mia vita? Intollerabile. Per giunta, da quando vivevo a Forks, sembrava davvero che la mia vita riguardasse soltanto lui.

Ma la vocina nella mia testa era preoccupata e si chiedeva quanto avrei sofferto... se fosse finita male.

Andare a letto fu un sollievo. Sapevo di essere troppo stressata per dormire, perciò feci un gesto mai azzardato prima: presi volontariamente un sonnifero di quelli che mi mettevano fuori combattimento per otto ore buone. In una situazione normale non mi sarei perdonata una simile debolezza, ma non era proprio il caso di aggiungere l’intontimento di una notte in bianco a una giornata che già di per sé si presentava complicata. In attesa che il narcotico agisse, mi asciugai i capelli appena lavati fino a stirarli perfettamente, e mi scervellai per scegliere i vestiti da indossare il giorno dopo.

Terminati i preparativi, mi infilai sotto le coperte. Mi sentivo ipertesa; non smettevo di rigirarmi. Mi alzai a frugare nella scatola di scarpe in cui tenevo i CD, finché non trovai una collezione dei Notturni di Chopin. L’ascoltai a volume basso e poi tornai a letto, concentrandomi per rilassare una parte del corpo alla volta. Chissà quando, nel bel mezzo dell’esercizio, le pillole fecero effetto e la tanto desiderata perdita di coscienza arrivò.

Mi svegliai presto, dopo un sonno profondo e senza sogni grazie all’intervento aggiuntivo del sonnifero. Malgrado avessi riposato bene, tornai subito nervosa e irrequieta come la sera prima. Mi vestii in un lampo, stirando con cura il colletto della camicia, e tormentai la felpa marrone chiaro per farla cadere bene sui jeans. Con una lesta occhiata alla finestra mi accertai che Charlie fosse già uscito. Il cielo era velato da uno strato di nuvole sottile e vaporoso, destinato a dissolversi sotto il sole.

Ingurgitai la colazione e sparecchiai in un baleno. Diedi un’altra occhiata fuori dalla finestra, ma non era cambiato niente. Mi lavai i denti, scesi qualche scalino, e il rumore delicato di qualcuno che bussava alla porta mi mandò in fibrillazione.

Volai all’ingresso: la serratura semplicissima mi creò qualche difficoltà, ma infine riuscii a spalancare la porta, ed ecco apparire Edward. Un semplice sguardo al suo splendido viso cancellò l’agitazione e mi riempì di pace. Sospirai di sollievo: le paure del giorno prima, con lui accanto, sembravano bazzecole.

Da tenebroso che era, si rasserenò. Mi guardò e sorrise.

«Buongiorno». Rideva sotto i baffi.

«Cosa c’è che non va?». Mi guardai per assicurarmi di non avere dimenticato niente di importante, come le scarpe o i pantaloni.

«Stessa divisa». E rise di nuovo. In effetti, anche lui indossava una larga felpa marrone chiaro, da cui spuntava un colletto bianco, e un paio di blue jeans. Risi con lui, nascondendo un filo di invidia: perché lui sembrava un fotomodello e io no?

Chiusi la porta, mentre si avvicinava al pick-up. Mi aspettava dalla parte del passeggero con un’espressione da martire che la diceva lunga.

«Gli accordi sono accordi», precisai, compiaciuta, accomodandomi al posto di guida, e mi allungai per aprirgli la portiera.

«Dove andiamo?», chiesi.

«Allaccia la cintura: sono già nervoso».

Obbedii e gli lanciai un’occhiataccia.

«Dove?», ribadii sospirando.

«Prendi la centouno, verso nord».

Era sorprendentemente difficile concentrarmi sulla guida, con il suo sguardo addosso. Cercai di rimediare usando molta più attenzione del solito nell’attraversare la città ancora addormentata.

«Pensi di farcela, a uscire da Forks prima di sera?».

«Questo pick-up potrebbe essere il nonno della tua auto, abbi un po’ di rispetto».

Poco dopo raggiungemmo la periferia, malgrado il pessimismo di Edward. I prati e le case presto lasciarono il posto al sottobosco e ai tronchi velati di verde.

«Svolta a destra verso la centodieci», disse lui, anticipando la mia domanda. Obbedii in silenzio.

«Adesso prosegui finché non trovi lo sterrato».

Sentivo una nota gioiosa nella sua voce, ma avevo troppa paura di uscire di strada e confermare i suoi timori sul mio stile di guida per voltarmi a controllare.

«E quando arriva lo sterrato, cosa c’è?».

«Un sentiero».

«Trekking?». Grazie al cielo mi ero messa le scarpe da ginnastica.

«È un problema?». Sembrava che avesse previsto tutto.

«No». Cercai di mentire senza darlo a vedere. Ma se pensava che il pickup fosse lento...

«Non preoccuparti, sono solo sette o otto chilometri, e non abbiamo fretta».

Otto chilometri. Non risposi, per non tradire il panico. Otto chilometri di radici minacciose e sassi sparsi, decisi a slogarmi una caviglia o a menomarmi in qualsiasi altra maniera. Sentivo l’umiliazione in agguato.

Per un po’, mentre contemplavo l’orrore imminente, restammo in silenzio.

«A cosa pensi?», chiese lui impaziente.

Mentii di nuovo: «A dove stiamo andando».

«In un posto in cui mi piace stare quando c’è bel tempo». Entrambi guardammo le nuvole sempre più sottili, fuori dai finestrini.

«Charlie diceva che sarebbe stata una giornata calda».

«E tu gli hai raccontato quali erano i tuoi piani?».

«No».

«Ma Jessica crede che stiamo andando a Seattle assieme?». L’idea sembrava rallegrarlo.

«No, le ho detto che hai annullato la gita... il che è vero».

«Nessuno sa che sei con me?». Si stava inquietando.

«Dipende... immagino che tu l’abbia detto ad Alice».

«Questo sì che mi è d’aiuto», disse sarcastico.

Finsi di non sentire.

«Forks ti deprime così tanto da farti contemplare il suicidio?», chiese, reclamando la mia attenzione.

«Sei stato tu a dire che per te poteva essere un problema... farci vedere troppo assieme».

«Così saresti preoccupata dei guai che potrei passare io... se tu non torni a casa?». Era ancora irritato, e il suo sarcasmo era velenoso.

Annuii, senza staccare gli occhi dalla strada.

Borbottò qualcosa a mezza voce, tanto rapidamente che non riuscii a decifrarlo.

Per il resto del viaggio in auto non volò una mosca. Sentivo le ondate di furia e rimprovero, e non riuscivo a spiccicare parola.

Infine, la strada terminò e si trasformò in un sentiero stretto, indicato soltanto da un piccolo ceppo. Parcheggiai nel poco spazio disponibile a lato della strada, timorosa perché Edward era in collera e io non avevo più la scusa della guida per distrarmi. La temperatura si era alzata, dal giorno del mio arrivo a Forks non avevo mai sentito quel caldo quasi afoso, sotto la coltre di nubi. Levai la felpa e me la annodai ai fianchi: era una fortuna che avessi indossato una camicia leggera, senza maniche, soprattutto perché mi aspettava una camminata di otto chilometri.

Sentii la sua portiera sbattere, e mi voltai: anche lui si era tolto la felpa e mi dava le spalle, rivolto verso la folta vegetazione al di là del pick-up.

«Da questa parte», disse, con un’occhiata ancora nervosa. Fece strada, dentro la foresta fitta e ombrosa.

«E il sentiero?». Girai attorno al pick-up di corsa con la voce piena di panico.