Выбрать главу

«Ho detto che alla fine della strada avremmo incontrato un sentiero, non che lo avremmo percorso».

«Niente sentiero?», chiesi, disperata.

«Non ci perderemo, fidati». Poi si voltò, sorridendomi beffardo, e mi tolse il fiato. Anche lui indossava una camicia senza maniche, sbottonata, e la pelle bianca e liscia del collo scendeva tesa sul profilo marmoreo del petto; la muscolatura non più nascosta dai vestiti spiccava in tutta la sua perfezione. Una simile bellezza era troppo perfetta, mi resi conto con una fitta acuta di disperazione. Non era possibile che questa creatura divina fosse stata inviata proprio a me.

Mi fissò, stupito dalla mia espressione straziata.

«Vuoi tornare a casa?», disse piano, con una velo di tormento, diverso da quello che provavo io.

«No». Mi avvicinai accelerando il passo, desiderosa di non sprecare nemmeno un istante del tempo che avevamo a disposizione.

«Cosa c’è che non va?», chiese, delicato.

«Il trekking non è il mio forte, purtroppo. Ti toccherà essere paziente».

«So essere molto paziente... se mi sforzo». Sorrise, sostenendo il mio sguardo e cercando di alleggerire quel mio improvviso e inspiegabile avvilimento.

Cercai di rispondere al sorriso, ma senza convinzione. Mi studiò in viso.

«Ti porterò a casa». Non capii se si trattava di una promessa indefinita o alludesse a una partenza immediata. Di sicuro pensava che avessi paura, e per l’ennesima volta ringfaziai il cielo che non riuscisse a leggermi nel pensiero.

«Se vuoi che io riesca a percorrere otto chilometri nella giungla prima che il sole tramonti, è il caso che tu faccia strada da subito», dissi acida. Mi guardò, serio, sforzandosi di leggere la mia espressione e il mio tono di voce.

Non fu difficile come temevo. Il terreno era più o meno regolare, ed Edward toglieva di mezzo le felci umide e i grovigli di muschio. Quando ci imbattevamo, lungo il nostro percorso dritto, in alberi caduti o massi, mi aiutava, sostenendomi per il braccio e lasciandomi andare appena superato l’ostacolo. Ogni contatto della sua pelle fredda con la mia era un batticuore assicurato. Per due volte capii dal suo sguardo che se n’era accorto.

Cercai di non lasciarmi distrarre da tanta perfezione, ma spesso cedevo. E, ogni volta, ammirare la sua bellezza mi intristiva.

Perlopiù, camminammo in silenzio. Di tanto in tanto buttava lì una domanda dimenticata durante i due giorni di interrogatorio. Mi chiese dei miei compleanni, dei miei professori, dei miei animali domestici, e fui costretta ad ammettere di averci rinunciato del tutto, dopo avere ucciso tre pesci rossi uno dopo l’altro. Ciò lo fece ridere più fragorosamente del solito, e nel bosco deserto risuonò attorno a noi come un’eco di campane.

La camminata occupò quasi tutta la mattina, ma lui non diede alcun segno di impazienza. La foresta si spandeva in un labirinto sconfinato di alberi secolari, e iniziavo a temere che non avremmo più ritrovato la strada di casa. Lui era perfettamente a suo agio, nel verde della vegetazione, e non mostrava alcuna esitazione, neppure il minimo problema di orientamento.

Dopo molte ore, la luce che filtrava dal tetto di foglie cambiò, da un tono oliva scuro a un giada luminoso. Era uscito il sole, come Edward aveva previsto. Per la prima volta da quando eravamo entrati nel bosco, sentii un’agitazione che presto divenne impazienza.

«Non siamo ancora arrivati?», lo stuzzicai, fingendo di lamentarmi.

«Quasi». Sorrise del mio cambiamento di umore. «Vedi che laggiù c’è più luce?».

Osservai la vegetazione fitta. «Ehm, dovrei?».

Ridacchiò. «In effetti, forse è un po’ presto, per i tuoi occhi».

«Mi ci vuole una visita dall’oculista», mormorai. La sua risatina divenne un ghigno.

Eppure, dopo un altro centinaio di metri, anch’io notai tra gli alberi un chiarore, una chiazza di luce gialla, anziché verde. Accelerai, sempre più agitata. In silenzio, lasciò che lo precedessi.

Raggiunsi i confini della chiazza di luce e, oltrepassate le ultime felci, entrai nel posto più grazioso che avessi mai visto. Era una radura, piccola, perfettamente circolare, piena di fiori di campo viola, gialli e bianchi. Si sentiva anche la musica scrosciante di un ruscello, nei dintorni. Il sole era alto e riempiva lo spiazzo di luce morbida. Camminavo lentamente, a bocca aperta, tra l’erba soffice e i fiori che dondolavano, sfiorati dall’aria calda e dorata. Mi voltai appena, desiderosa di condividere quella visione con Edward, ma lui non era più alle mie spalle. Mi guardai attorno, allarmata, cercandolo. Infine lo notai, ai margini del prato, nascosto nel fitto della foresta; mi guardava con aria circospetta. Solo in quell’istante ricordai ciò che la bellezza di quel posto aveva momentaneamente cancellato: l’enigma della luce solare che Edward aveva promesso di svelarmi.

Feci un passo verso di lui, gli occhi accesi di curiosità. Sembrava incerto, riluttante. Gli rivolsi un sorriso di incoraggiamento, facendogli segno di avanzare, e mi avvicinai ancora. A un suo cenno, mi arrestai dov’ero, i piedi ben piantati per terra.

Fece quel che mi sembrò un respiro profondo, poi uscì, nella luce abbagliante del sole di mezzogiorno.

13

Confessioni

Alla luce del sole Edward era sconvolgente. Non riuscii ad abituarmici; eppure non gli tolsi gli occhi di dosso per tutto il pomeriggio. La sua pelle, bianca nonostante il debole colorito acquistato dopo la battuta di caccia del giorno precedente, era scintillante, come ricoperta di piccoli diamanti. Se ne stava perfettamente immobile nell’erba, con la camicia aperta sul petto iridescente e scolpito, le braccia nude e sfavillanti. Le palpebre, pallide e luminose, erano chiuse, ma ovviamente non dormiva. Una statua perfetta, sbozzata in una pietra sconosciuta, liscia come il marmo, lucente come il cristallo.

Di tanto in tanto le sue labbra si muovevano incredibilmente veloci, quasi tremassero. Quando glielo feci notare, mi disse che canticchiava tra sé, a voce troppo bassa perché io lo sentissi.

Anch’io mi godevo il sole, malgrado l’aria fosse troppo umida per i miei gusti. Mi sarebbe piaciuto sdraiarmi come lui e scaldarmi il viso. Invece rimasi rannicchiata con il mento sulle ginocchia, incapace di levargli gli occhi di dosso. Il vento era delicato, mi spettinava e scompigliava l’erba attorno alla sua sagoma immobile.

Il prato, che prima mi era sembrato così spettacolare, impallidiva di fronte a tanta magnificenza.

Esitai, presa anche allora dalla paura che lui si dissolvesse come un miraggio, troppo bello per essere vero... Ed esitando tesi un dito fino ad accarezzare il dorso della sua mano sfavillante, immobile a pochi centimetri da me. Quella trama perfetta, soffice come la seta, fredda come la pietra, non smetteva di meravigliarmi. Alzai lo sguardo e trovai i suoi occhi, aperti: quel giorno erano color miele, più chiari e caldi dopo la caccia. Agli angoli della sua bocca spuntò un sorriso.

«Non ti faccio paura?», chiese scherzoso, benché la sua voce morbida tradisse una curiosità sincera.

«Non più del solito».

Il sorriso si allargò: i suoi denti brillavano al sole.

Mi feci più vicina, e con la punta delle dita seguii il profilo del suo avambraccio. Mi accorsi che mi tremava la mano, e sapevo che non gli sarebbe sfuggito.

«Ti dà fastidio?», chiesi, poiché aveva richiuso gli occhi.

«No», disse, senza riaprirli. «Non hai idea di come mi senta».

Con la mano, delicatamente, seguii il profilo dei muscoli perfetti del braccio, lungo la debole traccia bluastra delle vene, vicino alla piega del gomito. Con l’altra mano cercai la sua. Lui intuì la mia mossa e mi offrì il palmo con uno di quei suoi movimenti invisibili, incredibilmente veloci. Mi spaventò, e per un istante le mie dita si arrestarono sul suo braccio.

«Scusa», mormorò. Alzai lo sguardo appena in tempo per osservarlo richiudere gli occhi. «È troppo facile essere me stesso, assieme a te».

Sollevai la sua mano, rigirandola e ammirando i riflessi del sole. L’avvicinai agli occhi per scoprirne le misteriose sfaccettature.