«Dimmi cosa pensi», disse in un sussurro. Incrociai il suo sguardo, improvvisamente concentrato su di me. «Mi sembra ancora così strano, non riuscire a capirlo».
«Noi comuni mortali ci sentiamo sempre così, sai?».
«Che vita dura». Mi stavo solo immaginando la sfumatura malinconica nella sua voce? «Non hai risposto».
«Mi chiedevo cosa stessi pensando tu...», poi esitai.
«E?».
«E desideravo poter credere che tu fossi vero. E mi auguravo di non avere paura».
«Non voglio che tu abbia paura». La sua voce era un sussurro esile. Sentii ciò che non poteva sostenere con certezza: che non c’era bisogno di avere paura, che non c’era niente da temere.
«Be’, non è esattamente quella la paura che intendevo, malgrado sia un aspetto da non trascurare».
Si mise a sedere di scatto, facendo leva sul braccio destro con un movimento fulmineo, non percepibile, lasciando l’altra mano tra le mie. Il suo viso d’angelo fu a pochi centimetri dal mio. Certo avrei potuto - avrei dovuto - arretrare, di fronte a quell’intimità imprevista, ma non riuscii a muovermi. Ero ipnotizzata dai suoi occhi dorati.
«E allora, di cosa hai paura?», sussurrò, serio.
Non trovavo le parole. Come mi era accaduto una volta soltanto, sentivo il suo respiro fresco sul viso. Dolce, delizioso, il suo profumo mi metteva l’acquolina in bocca. Era diverso da qualsiasi altro odore. Istintivamente, senza pensarci, mi avvicinai ad annusarlo.
E lui spari, sfuggendo alla mia presa. Nell’istante che mi occorse per mettere a fuoco la scena, si era già allontanato di una decina di metri, ai bordi del prato, sotto l’ombra lunga di un grosso abete. Mi fissava, gli occhi cupi nel buio, sul viso un’espressione indecifrabile.
Non riuscii a trattenere uno sguardo addolorato e sorpreso. Le mani, vuote, mi bruciavano.
«Mi... dispiace... Edward», sussurrai. Sapevo che riusciva a sentirmi.
«Dammi solo un momento», disse, con un tono appena sufficiente per le mie orecchie meno sensibili. Restai immobile.
Dopo dieci secondi incredibilmente lunghi tornò indietro, più lentamente del suo solito. Si fermò a pochi metri da me e si lasciò cadere con grazia sul prato, sedendosi a gambe incrociate. I suoi occhi non mollarono i miei neanche per un istante. Fece due respiri profondi e sorrise per farsi perdonare.
«Mi dispiace tanto. Capiresti cosa intendo se ti dicessi che la carne è debole?».
Annuii, incapace di sorridere della battuta. Più mi rendevo conto del pericolo, più sentivo scorrere l’adrenalina. Ne sentiva l’odore fin da dov’era seduto. La sua espressione divenne un sorriso sarcastico.
«Sono il miglior predatore del mondo, no? Tutto, di me, ti attrae: la voce, il viso, persino l’odore. Come se ce ne fosse bisogno!». A sorpresa, scattò in piedi e schizzò via, scomparendo in un istante dalla visuale, per riapparire sotto lo stesso albero di poco prima, dopo aver percorso il perimetro della radura in mezzo secondo.
«Come se tu potessi fuggire», rise, maligno.
Afferrò un ramo dalla circonferenza di mezzo metro e lo divelse senza sforzo dal tronco di un abete rosso. Lo tenne in mano, in equilibrio per un momento, e poi lo lanciò a velocità impressionante verso un altro albero, contro cui si sbriciolò, scuotendolo.
Poi, rieccolo di fronte a me, a pochi centimetri, immobile come una pietra.
«Come se potessi combattere ad armi pari», disse, delicato.
Restai seduta senza muovermi, non avevo mai avuto così paura di lui. Non avevo mai visto ciò che nascondeva dietro quella facciata così ben costruita. Non era mai stato meno umano di così... né più bello. Sedevo lì, il viso cinereo e gli occhi sbarrati, un uccellino ipnotizzato dallo sguardo di un serpente.
I suoi begli occhi sembravano accesi dall’eccitazione. Poi, con il passare dei secondi, si spensero. La sua espressione, piano piano, si trasformò in una maschera di antica tristezza.
«Non avere paura», sussurrò, con voce vellutata e, suo malgrado, seducente. «Prometto... giuro che non ti farò del male». Sembrava più intento ad autoconvincersi che a convincere me.
«Non avere paura», mormorò di nuovo, avvicinandosi a me con lentezza esagerata. Si sedette con un movimento sinuoso e deliberatamente posato, fino ad avvicinare il suo viso al mio, a pochi centimetri di distanza.
«Per favore, perdonami», disse, con aria formale. «Sono capace di controllarmi. Mi hai preso in contropiede. Ma adesso sarò impeccabile».
Attese la mia risposta, ma ero paralizzata.
«Sul serio, oggi non ho così tanta sete». Mi strizzò l’occhio.
Non gli rifiutati una risata, benché debole e forzata.
«Stai bene?», chiese, con dolcezza, avvicinandosi per offrirmi di nuovo la mano marmorea.
Osservai la pelle liscia e fredda, poi lo guardai negli occhi. Erano dolci, contriti. Tornai alla sua mano, e ripresi a seguirne i contorni con la punta delle dita. Alzai lo sguardo e azzardai un sorriso timido.
Ricambiò, illuminandosi tanto da farmi perdere la testa.
«Cosa stavamo dicendo, prima che mi comportassi in maniera così sgarbata?», chiese, con la cadenza gentile di un altro secolo.
«Sinceramente non ricordo».
Sorrise, ma nei suoi occhi c’era un filo di imbarazzo: «Credo che stessimo parlando di ciò che ti mette paura, a parte le ragioni più ovvie».
«Ah, sì».
«Allora?».
Tornai a osservare la sua mano, disegnando ghirigori immaginari sul palmo liscio e luccicante. I secondi passavano.
«Com’è facile vanificare i miei sforzi», sospirò. Lo guardai negli occhi, e all’improvviso capii che la situazione in cui ci trovavamo era nuova per lui quanto per me. Malgrado gli innumerevoli anni di esperienza che probabilmente aveva, era in difficoltà. Questo pensiero mi diede coraggio.
«Avevo paura perché... per, ecco, ovvi motivi, non posso stare con te. Ma d’altro canto vorrei stare con te molto, molto più del lecito». Non staccavo gli occhi dalle sue mani. Era difficile dire certe cose ad alta voce.
«Sì». Parlò lentamente: «Non c’è dubbio, è una paura legittima, voler stare con me. È tutto fuorché una scelta vantaggiosa».
Lo guardai, accigliata.
«Avrei dovuto lasciarti perdere tempo fa», sospirò. «Dovrei lasciarti, adesso. Ma non so se ci riuscirei».
«Non voglio che tu mi lasci», mormorai accorata, abbassando lo sguardo per l’ennesima volta.
«Il che è precisamente la migliore ragione per andarmene. Ma non preoccuparti, sono una creatura essenzialmente egoista. Desidero troppo la tua compagnia per comportarmi come dovrei».
«Ne sono lieta».
«Non esserlo!». Ritrasse la mano, più dolcemente di prima; il suo tono di voce era più aspro del solito, ma restava più meraviglioso di qualsiasi voce umana. Era difficile seguire i suoi sbalzi di umore, restavo sempre indietro, stupita.
«Non è solo la tua compagnia che amo! Non dimenticarlo mai. Non dimenticare mai che sono più pericoloso per te che per chiunque altro». Osservava un punto indefinito della foresta.
Per qualche istante meditai in silenzio.
«Non credo di avere capito cosa intendi, specialmente l’ultima frase», dissi.
Tornò a fissarmi e sorrise, dopo l’ennesimo cambiamento di umore.
«Come faccio a spiegartelo senza metterti di nuovo paura... vediamo». Sovrappensiero mi offrì di nuovo la mano. La strinsi forte fra le mie, e il suo sguardo le contemplò.
«È straordinariamente piacevole il calore», sospirò.
Un momento dopo, riordinò le idee.
«Hai presente, i gusti delle persone? Ad alcune piace il gelato al cioccolato, ad altre la fragola?».
Annuii.
«Scusa l’analogia con il cibo, non trovo una metafora migliore».
Al mio sorriso seguì subito il suo, con un filo di imbarazzo.
«Vedi, ogni persona ha un suo odore, un’essenza particolare. Se chiudessi un alcolizzato in una stanza piena di lattine di birra sgasata, le berrebbe senza badarci. Se invece fosse un alcolista pentito, se decidesse di non berle, potrebbe riuscirci facilmente. Ora, se poniamo nella stanza un solo bicchiere di liquore invecchiato cento anni, il cognac migliore, il più raro di tutti, che diffonde ovunque il suo profumo... come credi che si comporterebbe il nostro alcolizzato?».