Chiuse gli occhi, perso nello sforzo della confessione. Lo avevo ascoltato con più curiosità che razionalità. Il buon senso mi diceva che avrei dovuto esserne terrorizzata. Riuscire a comprenderlo fu un sollievo. E un’ondata di compassione per la sua sofferenza mi pervase, anche mentre ammetteva di aver desiderato la mia vita.
Infine, riuscii a spiccicare parola, malgrado la mia voce fosse un sussurro: «E in ospedale?».
M’inchiodò con lo sguardo. «Ero scioccato. Non riuscivo a credere di avere corso quel rischio, di averlo fatto correre a tutti i miei, per proteggere proprio te. Come se ci fosse bisogno di un motivo in più per ucciderti». Nell’istante in cui questa parola gli uscì di bocca, scattammo entrambi. «Ma l’effetto è stato il contrario», aggiunse immediatamente. «Ho litigato con Rosalie, Emmett e Jasper, che sostenevano fosse il momento giusto... il peggior litigio da quando viviamo assieme. Carlisle e Alice erano dalla mia parte». Sorrise, nominando la sorella. Non riuscivo a immaginare perché. «Secondo Esme dovevo fare tutto il possibile per rimanere». Scosse il capo, benevolo.
«Il giorno dopo ho origliato le menti di tutte le persone con cui avevi parlato, stupito che avessi mantenuto la parola. Non ti avevo affatto capita. Ma sapevo che non potevo lasciarmi coinvolgere ulteriormente da te. Ho fatto del mio meglio per starti lontano. E ogni giorno il profumo della tua pelle, del tuo respiro, dei tuoi capelli... mi colpiva forte, come la prima volta».
Incrociò il mio sguardo, sembrava sorprendentemente tenero.
«E la cosa più assurda è che mi sarei curato meno di rovinarci tutti il primo giorno, piuttosto che farti del male qui, ora, senza testimoni, senza nessuno in grado di fermarmi».
Fui abbastanza comprensiva da doverglielo chiedere: «Perché?».
«Isabella». Pronunciò il mio nome completo con attenzione; poi, con la mano libera, giocò con i miei capelli, scompigliandoli. Quel contatto così casuale mi scatenò una tempesta dentro. «Bella, arriverei a odiare me stesso, se dovessi farti del male. Non hai idea di che tormento sia stato», abbassò gli occhi, intimorito, «il pensiero di te immobile, bianca, fredda... di non vederti più avvampare di rossore, di non poter più cogliere la scintilla nel tuo sguardo quando capisci che ti sto prendendo in giro... non sarei in grado di sopportarlo». Mi fissò con i suoi occhi meravigliosi e angosciati. «Ora sei la cosa più importante per me. La cosa più importante di tutta la mia vita».
Il rapido cambio di direzione nella conversazione mi fece girare la testa. Eravamo passati dalla spensierata constatazione della mia imminente scomparsa alle dichiarazioni ufficiali. Aspettava una risposta, e malgrado non levassi lo sguardo dalle nostre mani intrecciate, sentivo i suoi occhi dorati addosso.
«Sai già cosa provo, ovviamente», risposi, infine. «Sono qui, il che, in due parole, significa che preferirei morire, piuttosto che rinunciare a te». Abbassai lo sguardo. «Sono un’idiota».
«Certo che lo sei», ribadì lui, con una risata. Lo fissai negli occhi, e anch’io iniziai a ridere. Ridevamo di quel momento così folle e totalmente imprevedibile.
«Così, il leone si innamorò dell’agnello...», mormorò. Guardai altrove nascondendogli i miei occhi, elettrizzata da quelle parole.
«Che agnello stupido», sospirai.
«Che leone pazzo e masochista». Per un istante interminabile scrutò le ombre della foresta, preso da chissà quali pensieri.
«Perché...?». Tentai di parlare ma non ero sicura di come proseguire.
Mi guardò e sorrise: il suo viso, i suoi denti, sfavillavano al sole.
«Sì?».
«Dimmi perché prima sei fuggito in un lampo da me».
Il suo sorriso si spense. «Lo sai, il perché».
«No, voglio dire, cos’ho fatto di preciso? È meglio che stia in guardia, per imparare cosa non posso fare. Questo, per esempio», gli accarezzai il dorso della mano, «non crea problemi».
Sorrise di nuovo. «Non hai fatto niente di male, Bella. È stata colpa mia».
«Ma se posso, voglio aiutarti, voglio renderti la vita meno difficile».
«Be’...», meditò, per un istante. «È stata una questione di vicinanza. Gli esseri umani sono per la maggior parte naturalmente timidi con noi, la nostra alterità li allontana... Non mi aspettavo che ti avvicinassi così tanto. E poi il profumo del tuo collo». Non aggiunse altro, cercava di capire se mi avesse turbata.
«D’accordo», risposi decisa, desiderosa di alleggerire l’atmosfera improvvisamente plumbea. Alzai il colletto fino al mento. «Niente collo scoperto».
Funzionò: lo feci ridere. «No, davvero, più che altro è stata la sorpresa».
Alzò la mano libera e la posò dolcemente sul mio collo. Ero immobile, il suo tocco ghiacciato agiva come un allarme naturale - un allarme che mi avvertiva di farmi prendere dal terrore - ma non sentivo un briciolo di paura. Dentro di me c’erano ben altre sensazioni...
«Vedi? Nessun problema».
Il cuore mi batteva all’impazzata, non so cos’avrei dato per rallentarlo, conscia che il suo pulsare così potente nelle vene avrebbe creato qualche problema. Di sicuro riusciva a sentirlo.
«Resta ferma», sussurrò, come se non fossi già impietrita.
Lentamente, senza staccare gli occhi da me, si avvicinò. Poi, all’improvviso, ma con grande delicatezza, posò la guancia fredda nell’incavo del mio mento, sulla gola. Anche se avessi desiderato muovermi, non ci sarei riuscita. Ascoltai il rumore del suo respiro regolare, guardando il sole e il vento giocare con quei capelli di bronzo, il più umano dei suoi tratti.
Con lentezza calcolata, fece scivolare le mani lungo il mio collo. Sentii un brivido e mi accorsi che tratteneva il respiro. Ma non si fermava, scorreva morbidamente sulle spalle, poi si arrestò.
Spostò il viso di lato, sfiorandomi la clavicola con il naso. Infine, si accucciò con il volto appoggiato dolcemente al mio petto.
Ascoltava il mio cuore.
Gli sfuggì un sospiro.
Non so per quanto tempo restammo immobili in quella posizione. Ore intere, per quel che mi sembrava. Alla fine, il ritmo del mio cuore rallentò, ma lui non disse una parola e continuò a stringermi a sé. Sapevo che avrebbe potuto perdere il controllo in qualsiasi momento e la mia vita sarebbe finita lì, tanto in fretta da non accorgermene neanche. Eppure, non riuscivo a provare paura. Sentivo il contatto con lui e non pensavo ad altro.
Infine, troppo presto, mollò la presa.
Il suo sguardo era quieto.
«Non sarà più così difficile», disse, soddisfatto.
«È stata dura?».
«Non terribile come immaginavo. E per te?».
«No, niente affatto terribile... per me».
Sorrise al mio tono. «Hai capito cosa intendo».
Sorrisi.
«Vieni qui». Mi prese la mano e se la avvicinò alla guancia. «Senti?».
La sua pelle, di solito ghiacciata, era quasi calda. Me ne accorsi però a malapena, perché stavo sfiorando il suo viso, un gesto che desideravo fare dal primo giorno.
«Resta lì», sussurrai.
Nessuno era capace di restare immobile come Edward. Chiuse gli occhi e rimase fermo come una pietra, una scultura in mano mia.
Mi muovevo ancora più lentamente di lui, evitando gesti improvvisi. Gli carezzai la guancia, sfiorai delicatamente le palpebre e l’ombra violacea dell’incavo attorno all’occhio. Seguii il profilo del suo naso perfetto, e poi, con la massima delicatezza, delle labbra impeccabili. Al contatto con la mia mano si dischiusero, e sentii il suo respiro freddo sulla punta delle dita. Desideravo avvicinarmi, annusare il suo profumo. Perciò levai la mano e mi scostai un poco: non volevo esagerare.
Aprì gli occhi, e il suo sguardo affamato scatenò in me un’ondata di paura, però mi chiuse la bocca dello stomaco e mandò di nuovo il mio cuore a mille.