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«Mi piacerebbe poter pensare altrettanto di me».

«E dai, dopotutto sei soltanto un essere umano».

«Tante grazie», risposi acida.

Con uno dei suoi movimenti leggiadri e istantanei scattò in piedi. Mi tese una mano con un gesto inaspettato. Ero abituata all’assenza di contatto tra noi. Afferrai il suo palmo ghiacciato, avevo più bisogno di sostegno di quanto immaginassi. Non avevo ancora ritrovato l’equilibrio.

«Ti senti ancora indebolita dalla corsa? O è stato il mio bacio da maestro?». Scoppiò a ridere, spensierato e umano come non mai, senza un’ombra di inquietudine sul volto serafico. Era un Edward diverso da quello che avevo conosciuto. E ciò aumentava la mia infatuazione. A quel punto, separarmi da lui sarebbe stato un dolore fisico.

«Non so, mi sento ancora imbambolata», riuscii a rispondere. «L’uno e l’altro, penso».

«Forse è meglio che guidi io».

«Sei pazzo?».

«Sono un pilota migliore di te nella tua forma più smagliante. Hai i riflessi molto più lenti dei miei».

«Certo, ma non credo che i miei nervi o il mio pick-up possano farcela a sostenerti».

«E dai, Bella, un po’ di fiducia».

Stringevo forte la chiave del pick-up nella tasca dei pantaloni. Serrai le labbra e scossi la testa sorridendo.

«No. Nemmeno per sogno».

Mi guardò incredulo.

Allora mi avvicinai al posto di guida, cercando di scansare Edward. Forse mi avrebbe lasciata passare, se non avessi barcollato in quel modo. O forse no. Le sue braccia attorno alla vita furono una trappola a cui non riuscii a sfuggire.

«Bella, fino a questo momento il mio sforzo personale nel tentativo di salvarti la vita è stato enorme. Non permetterò certo che tu ti metta al volante nel momento in cui non riesci nemmeno a camminare in linea retta. Oltretutto, gli amici non lasciano guidare chi ha bevuto, lo sai». Sorrise della sua battuta. Sentivo l’aroma dolce e irresistibile irradiato dal suo petto.

«Pensi che sia ubriaca?».

«Sei intossicata dalla mia presenza». Riecco quel ghigno malizioso.

«Non ti posso dare torto». Non avevo scelta: era inutile girarci intorno e ostinarmi a resistergli. Lasciai oscillare la chiave e la mollai all’improvviso; sotto i miei occhi la sua mano schizzò e la prese al volo, silenzioso e veloce come un lampo. «Vacci piano», lo avvertii, «il pick-up è un pensionato».

«Molto ragionevole», disse con approvazione.

«E tu, non sei nemmeno scalfito dalla mia presenza?», chiesi maliziosa.

Ancora una volta la sua espressione si trasformò e i suoi tratti si fecero dolci, caldi. Anziché rispondere, avvicinò il viso al mio, inclinandolo leggermente, e prese a sfiorarmi lento con le labbra, dall’orecchio al mento, avanti e indietro. Tremavo.

«E in ogni caso», mormorò, «i miei riflessi sono più pronti dei tuoi».

14

Ragione e istinto

In effetti, finché restava sotto i limiti di velocità, sapeva essere un bravo pilota. Non sembrava costargli alcuno sforzo: un’altra delle sue tante doti naturali. Teneva a malapena gli occhi sulla strada, ma le ruote non deviavano di un centimetro dal centro della corsia. Stringeva il volante con una mano sola, e con l’altra la mia sul sedile. Talvolta guardava il sole all’orizzonte, talvolta me, il mio viso, i miei capelli scompigliati dal finestrino aperto, le nostre mani intrecciate.

Aveva acceso l’autoradio, sintonizzata su una stazione di vecchi successi, e cantava una canzone che non avevo mai sentito. La conosceva a memoria.

«Ti piace la musica dei Cinquanta?», gli chiesi.

«La musica degli anni Cinquanta era buona. Di gran lunga meglio che nei Sessanta o nei Settanta! Roba da brividi. Gli anni Ottanta erano sopportabili».

«Conoscerò mai la tua vera età?», azzardai, badando a non rovinare il suo ottimo umore.

«Importa qualcosa?». Con mio gran sollievo, continuò a sorridere.

«No, ma me lo chiedo spesso... Sai, non c’è niente di meglio che un bel mistero irrisolto per trascorrere una notte insonne».

«Chissà se ne rimarresti sconvolta...», disse tra sé. Il suo sguardo si perse nel sole. I minuti passavano.

«Mettimi alla prova».

Sospirò e mi studiò, frugandomi negli occhi, dimentico quasi del tutto della strada. Non so cosa vide, ma prese coraggio. Tornò a osservare il sole - la luce del globo infuocato al tramonto accendeva sulla sua pelle uno sfavillio color rubino - e parlò.

«Sono nato a Chicago nel 1901». In silenzio, mi guardò con la coda dell’occhio. Mi curai di non mostrare nessuna sorpresa, attendendo pazientemente il resto della storia. Accennò un sorriso e proseguì. «Carlisle mi trovò in un ospedale nell’estate del 1918. Avevo diciassette anni e stavo morendo di spagnola».

Si accorse del mio sussulto, benché fosse appena percepibile. Tornò a fissarmi negli occhi.

«Ho qualche ricordo vago... è stato tantissimo tempo fa, e la memoria umana tende a svanire». Si perse nei suoi pensieri per qualche istante. «Però ricordo bene quello che provai quando Carlisle mi salvò. Non è una cosa facile; è impossibile da dimenticare».

«E i tuoi genitori?».

«Erano già stati uccisi dal morbo. Ero rimasto solo. Perciò Carlisle scelse me. Nel caos dell’epidemia, nessuno si sarebbe accorto della mia scomparsa».

«Come... ha fatto a salvarti?».

Attese qualche secondo. Stava cercando le parole giuste.

«Fu difficile. Pochi di noi possiedono l’autocontrollo necessario a un atto del genere. Ma Carlisle è sempre stato il più umano, il più compassionevole di noi tutti... Non credo abbia eguali nella storia. Quanto a me... fu qualcosa di semplicemente doloroso, molto doloroso».

Le sue labbra increspate rivelavano che non si sarebbe dilungato. Soffocai la curiosità, tutt’altro che soddisfatta. C’erano troppe cose su cui dovevo riflettere, al riguardo, questioni che iniziavano a balenarmi davanti solo in quel momento. Senza dubbio, la mente brillante di Edward aveva già compreso tutto quello che a me sfuggiva.

La sua voce vellutata interruppe i miei pensieri: «Fu la solitudine a spingerlo. Dietro scelte del genere c’è sempre un motivo simile. Fui il primo a entrare nella famiglia di Carlisle, anche se poco dopo trovò Esme. Era caduta da uno scoglio. La portarono direttamente all’obitorio dell’ospedale, benché, chissà come, il suo cuore battesse ancora».

«Perciò bisogna essere in punto di morte, per diventare...». Non avevamo mai detto apertamente quella parola, e nemmeno in quel momento riuscii a pronunciarla.

«No, è una scelta di Carlisle. Lo fa solo con chi non ha più speranze, con chi non ha altre possibilità». Ogni volta che nominava quella figura paterna, nella sua voce si sentiva un profondo rispetto. «Inoltre, secondo lui, quando il sangue è debole è più facile». Guardò la strada ormai scura, e sospettai di nuovo che stesse per chiudere l’argomento.

«E Rosalie ed Emmett?».

«Rosalie fu la terza a unirsi alla nostra famiglia. Carlisle sperava che sarebbe diventata per me ciò che Esme era per lui - ha sempre avuto un’attenzione particolare per me e chi avessi accanto, ma questo lo capii soltanto molto tempo dopo. Ma non è mai stata più che una sorella. Fu lei, due anni dopo, a trovare Emmett. Era a caccia - all’epoca vivevamo sugli Appalachi - e lo vide in balia di un orso, mezzo sbranato. Lo portò a Carlisle, a centinaia di chilometri di distanza, perché temeva di non essere capace di fare ciò che voleva da sola. Adesso comincio a immaginare quanto fu difficile quel viaggio». Lanciò un’occhiata ammiccante verso di me, sollevò la mano ancora intrecciata alla mia e con il dorso mi carezzò una guancia.

«Eppure, ci riuscì», suggerii, distogliendo lo sguardo dalla bellezza insopportabile dei suoi occhi.

«Sì», mormorò, «qualcosa nel viso di Emmett le diede la forza necessaria. Stanno assieme da quel giorno. Di tanto in tanto vivono isolati dal nostro gruppo, come una coppia di sposi. Ma più giovani fingiamo di essere, più a lungo riusciamo a stabilirci nello stesso luogo. Forks sembrava perfetta, perciò ci siamo iscritti tutti alla scuola superiore». Rise. «Credo che tra qualche anno dovremo presenziare al loro matrimonio, l’ennesimo».