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«Alice e Jasper?».

«Alice e Jasper sono due creature molto rare. Hanno entrambi sviluppato una “coscienza”, come la chiamiamo noi, senza influenze esterne. Jasper faceva parte di un’altra... famiglia, molto diversa dalla nostra. Cadde in depressione, se ne distaccò e iniziò a vagare solitario. Fu scoperto da Alice. Come me, lei possiede alcune qualità fuori della norma anche per la nostra razza».

«Davvero?». Ero curiosa e affascinata. «Hai detto però di essere l’unico capace di leggere nel pensiero».

«È così. Lei è capace di altro: lei può vedere. Vede le possibilità e gli eventi del futuro prossimo. Ma è molto soggettivo. Il futuro non è inciso nella pietra. Tutto cambia».

A quelle parole si rabbuiò, il suo sguardo saettò sul mio viso, poi di nuovo davanti a sé, a velocità irreale. O forse era stata solo la mia immaginazione.

«Che genere di cose vede?».

«Vide Jasper, e sapeva che la stava cercando ancora prima che lui se ne rendesse conto. Vide Carlisle e la nostra famiglia, e ci raggiunse assieme a Jasper. È la più sensibile alla presenza di non-umani. Per esempio, percepisce l’arrivo di altri gruppi della nostra specie. E capisce se rappresentano un pericolo o no».

«Sono in tanti, quelli... come voi?». Ero sbalordita. Quanti di loro vivevano indisturbati tra la gente normale?

«No, siamo in pochi. E per giunta, è difficile che viviamo a lungo nello stesso luogo. Solo quelli come noi, che hanno rinunciato a cacciare gli umani», e lanciò un’altra occhiata verso di me, «riescono a convivete con voi. L’unica famiglia simile alla nostra che conosciamo è Alaska. Per un certo periodo abbiamo vissuto assieme a loro, ma eravamo in troppi, davamo nell’occhio. Quelli di noi che vivono... diversamente tendono a stabilire un legame tra loro».

«E gli altri?».

«Perlopiù sono nomadi. Di tanto in tanto lo siamo stati anche noi. Come tutte le cose, a un certo punto annoia. Ma a volte incrociamo qualche nostro simile, dato che la maggior parte di noi predilige il Nord».

«E perché?».

Eravamo appena giunti di fronte a casa mia e aveva spento il pick-up. Tutto era silenzioso e buio, la luna non c’era. La luce in veranda era spenta, segno che mio padre non era ancora rientrato.

«Avevi gli occhi aperti, questo pomeriggio?», mi provocò. «Pensi che potrei passeggiare indisturbato nel sole pomeridiano senza causare incidenti stradali? Ci siamo stabiliti nella Penisola di Olympia perché è uno dei posti meno assolati del mondo. È bello poter uscire di giorno. Non puoi credere quanto diventi pesante vivere di notte per ottant’anni e più».

«È da lì che nascono le leggende?».

«Probabilmente».

«Anche Alice veniva da un’altra famiglia, come Jasper?».

«No, e questo è un mistero, anche per noi. Alice non ricorda niente della sua vita da umana. Non sa chi l’abbia creata. Si è svegliata, ed era sola. Chiunque le abbia ridato vita è sparito, e nessuno di noi riesce a capire come e perché. Se non fosse stata provvista di quel senso in più, se non avesse visto Jasper e Carlisle e capito che sarebbe diventata una di noi, probabilmente si sarebbe trasformata in una selvaggia fatta e finita».

Avevo parecchio a cui pensare, e molte domande ancora in serbo. Ma, con mio grave imbarazzo, il mio stomaco brontolò. Ero così frastornata da non aver neanche pensato a mangiare. E a quel punto realizzai che stavo morendo di fame.

«Scusami, ti ho trattenuta; immagino che tu debba cenare».

«No, non c’è problema, davvero».

«Non ho mai passato molto tempo in compagnia di qualcuno che si nutre di cibo. Me ne stavo dimenticando».

«Voglio restare qui con te». Dirlo nell’oscurità era più facile, sapevo che la mia voce avrebbe tradito me e la mia dipendenza irrimediabile da lui.

«Posso entrare?», mi domandò.

«Ti andrebbe?». Non riuscivo nemmeno a immaginare quella creatura paradisiaca seduta nella cucina malconcia di mio padre.

«Sì, se non è un problema». Sentii il rumore della portiera dalla sua parte che si chiudeva piano, e quasi simultaneamente lui apparve al mio finestrino, per aprire la mia.

«Molto umano, direi», mi complimentai per il gesto.

«Sento che certe cose stanno tornando a galla».

Camminava al mio fianco nella notte, tanto silenzioso che sbirciavo di continuo per accertarmi che non fosse sparito. Al buio sembrava molto più normale. Sempre pallido, sempre bello come un sogno, ma non più la stessa fantastica creatura scintillante del nostro pomeriggio assolato.

Mi precedette sulla porta e l’aprì. Rimasi impietrita sulla soglia.

«Era aperta?».

«No, ho preso la chiave da sotto lo zerbino».

Entrai, accesi la luce della veranda e mi voltai a guardarlo, sbalordita. Ero sicura di non avere mai usato quella chiave in sua presenza.

«Ero curioso... di te».

«Mi hai spiata?». Mi sforzavo di imprimere alla mia voce un tono indignato ma, non so come, non ci riuscivo. Anzi, mi sentivo lusingata.

Lui non fece una piega. «Cos’altro c’è da fare, di notte?».

Lasciai correre ed entrai in cucina. Mi precedette senza bisogno che gli facessi strada. Si sedette proprio dove avevo provato a immaginarlo. La cucina risplendeva della sua bellezza. Distogliere lo sguardo da lui era un’impresa.

Mi concentrai sulla cena, presi le lasagne della sera prima dal frigorifero, ne tagliai un quadrato che posai su un piatto e lo misi a scaldare nel microonde. Le lasagne iniziarono a girare e a riempire la stanza del profumo di pomodoro e origano. Parlai senza staccare gli occhi dal forno.

«Quante volte?», chiesi, disinvolta.

«Come?». Sembrava l’avessi distolto da chissà quale catena di pensieri.

Non mi voltai. «Quante volte sei venuto qui?».

«Vengo a trovarti quasi tutte le notti».

Mi voltai di scatto, stupita: «Perché?».

«Sei interessante quando dormi». Lo diceva come se niente fosse. «Parli nel sonno».

«No!», sbottai, rossa di vergogna fino ai capelli. Mi appoggiai al piano di cottura per sostenermi. Certo che sapevo di parlare nel sonno: mia madre mi aveva sempre preso in giro per questo. Però non avrei mai pensato di dovermene preoccupare anche lì.

Era dispiaciuto, glielo leggevo negli occhi. «Sei tanto arrabbiata con me?».

«Dipende!». Mi sentii - e parlai - come se qualcuno mi avesse rubato l’aria.

Aspettò che chiarissi.

«Da...», mi sollecitò dopo un po’.

«Da quel che hai sentito!», strillai.

All’istante, in silenzio, si materializzò al mio fianco e mi prese le mani con delicatezza.

«Non esserne così sconvolta!». Si chinò su di me e da pochi centimetri di distanza mi fissò negli occhi. Ero imbarazzata, e cercai di distogliere lo sguardo.

«Ti manca tua madre», sussurrò. «Sei preoccupata per lei. E il rumore della pioggia ti innervosisce. All’inizio parlavi molto di casa tua, ora lo fai più raramente. Una volta hai detto: “È troppo verde”». Rise piano, nella speranza - lo vedevo bene - di non offendermi ulteriormente.

«E che altro?».

Sapeva dove volevo arrivare. «Hai pronunciato il mio nome», ammise.

Sospirai, rassegnata: «Tante volte?».

«Quante sarebbero precisamente “tante”?».

«Oh, no!», chinai la testa.

Cercò di consolarmi, stringendomi al petto dolcemente, con naturalezza.

«Non prendertela con te stessa», mi sussurrò in un orecchio. «Se fossi capace di sognare, sognerei te. E non me ne vergogno».

Poi sentimmo entrambi il rumore di pneumatici sui sassi del vialetto, e due fari illuminarono le finestre di fronte che davano sull’ingresso. Mi irrigidii di colpo.

«È il caso che tuo padre sappia che sono qui?».

«Non saprei...», cercai di riflettere alla svelta.

«La prossima volta, allora...».