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Il primo era di mia madre:

Bella, scrivimi appena arrivi. Raccontami com’è andato il volo. Piove? Mi manchi già. Ho quasi finito di fare le valigie per la Florida. Ma non trovo più la mia camicetta rosa. Sai dove potrei averla messa? Un saluto anche da Phil.

Mamma.

Sospirai e passai alla e-mail successiva. Era stata spedita otto ore dopo la prima.

Bella, perché non mi hai ancora scritto? Cosa aspetti?

Mamma.

L’ultima era di quella mattina.

Isabella,

se entro le cinque e mezzo di oggi non rispondi, telefono a Charlie.

Controllai l’orologio. Mancava ancora un’ora, ma mia madre era famosa per anticipare i tempi.

Mamma,

calmati. Ti sto scrivendo ora. Non essere impulsiva.

Bella.

La inviai subito e ne iniziai un’altra.

Mamma,

va tutto benissimo. Certo che piove. Aspettavo che succedesse qualcosa, per scriverti. La scuola non è male. Solo un po’ monotona. Ho conosciuto qualche amica simpatica, pranziamo sempre assieme.

La tua camicetta è in lavanderia - avresti dovuto andare a ritirarla venerdì.

Charlie mi ha comprato un pick-up, ci credi? Lo adoro. È vecchio ma solidissimo. Il che, per me, è soltanto un bene. Anche tu mi manchi. Ti scriverò ancora presto, ma sappi che non scarico la posta ogni cinque minuti. Rilassati, fai un bel respiro. Ti voglio bene.

Bella.

Avevo deciso di rileggere, per il gusto di farlo, Cime tempestose, su cui in quel giorno vertevano le lezioni di inglese, e quando Charlie tornò a casa tenevo ancora il libro tra le mani. Avevo perso del tutto la cognizione del tempo, così scesi di corsa le scale per togliere le patate dal forno e cuocere la bistecca.

«Bella?», chiese mio padre, sentendomi scendere.

Che domanda. Chi altro poteva essere?

«Ehi, papà, bentornato».

«Grazie». Appese la fondina con la pistola e si tolse gli stivali, mentre io spadellavo in cucina. Per quel che ne sapevo, non aveva mai sparato un colpo, in servizio. Ma teneva sempre l’arma pronta. Quando da piccola trascorrevo le vacanze lì, la svuotava appena entrato in casa. Probabilmente ora mi giudicava grande abbastanza da non potermi sparare incidentalmente, e non abbastanza depressa da volermi sparare di proposito.

«Cosa c’è per cena?», chiese lui, cauto. Mia madre era una cuoca fantasiosa e non sempre i suoi esperimenti erano mangiabili. Fui sorpresa, e rattristata, che lui se ne ricordasse ancora.

«Bistecca e patate», risposi, e parve sollevato.

Sembrava imbarazzato, impalato in cucina senza far niente; mentre io mi davo da fare, si spostò rumorosamente in salotto a guardare la TV. Quella mossa ci mise entrambi a nostro agio. Mentre la bistecca cuoceva preparai l’insalata, e apparecchiai la tavola.

Quando la cena fu pronta lo chiamai, ed entrando in cucina annusò il cibo e si complimentò.

«Che buon profumo, Bell».

«Grazie».

Per qualche minuto mangiammo in silenzio. Non mi sentivo a disagio. Nessuno di noi era infastidito dal silenzio. In un certo senso, eravamo fatti per vivere assieme.

«E allora, come ti sembra la scuola? Ti sei già fatta qualche amica?», chiese, al secondo giro di patate.

«Be’, frequento un po’ di lezioni assieme a una ragazza che si chiama Jessica. A pranzo mangio con lei. E poi c’è un ragazzo, Mike, molto gentile. Tutti sembrano tanto carini». Con una evidente eccezione.

«Dev’essere Mike Newton. Bravo ragazzo, buona famiglia. Suo padre è il proprietario del negozio di articoli sportivi che sta appena fuori città. Si guadagna da vivere con la gente che viene a fare trekking da queste parti».

«Conosci i Cullen?», chiesi, con voce esitante.

«La famiglia del dottor Cullen? Certo. Cullen è un grand’uomo».

«Loro... i figli... sono un po’ strani. Non sembrano proprio inseriti, a scuola».

L’espressione infuriata di Charlie mi sorprese.

«La gente di questa città», mormorò. «Il dottor Cullen è un chirurgo brillante che probabilmente potrebbe permettersi di lavorare in qualsiasi ospedale al mondo e guadagnare dieci volte tanto quello che gli danno qui», continuò, alzando la voce. «È una fortuna che sia con noi, una fortuna che sua moglie abbia accettato di vivere in questa cittadina. È una risorsa per tutta la comunità, e i suoi figli sono educati e cortesi. Anch’io ero dubbioso, quando si sono trasferiti qui, con tutti quei ragazzi adottati. Pensavo che potessero darci qualche grattacapo. Invece sono molto maturi, e nessuno di loro mi ha mai dato il minimo problema. Non posso dire la stessa cosa di figli di gente che abitano qui da generazioni. E sono uniti, come dovrebbe essere una famiglia, ogni fine settimana vanno in campeggio... La gente deve aprire per forza il becco soltanto perché sono gli ultimi arrivati».

Era il discorso più lungo che avessi mai sentito uscire dalla bocca di Charlie. I pettegolezzi della gente dovevano averlo fatto indignare sul serio.

Io arretrai un po’. «A me sono sembrati carini. Ho solo notato che stanno sempre per i fatti loro. Sono tutti molto attraenti», aggiunsi, cercando di dare più peso ai complimenti.

«Dovresti conoscere il dottore», disse Charlie ridendo. «Per fortuna è sposato. Quando gira per l’ospedale, la maggior parte delle infermiere fatica a concentrarsi sul proprio lavoro».

Restammo di nuovo zitti e finimmo di cenare. Charlie sparecchiò mentre io iniziavo a lavare i piatti. Poi tornò davanti alla TV, e quando anch’io ebbi finito - niente lavastoviglie - salii svogliatamente al piano di sopra a fare i compiti di matematica. Sentivo che sarebbe diventata una tradizione.

Quella notte, finalmente, fu silenziosa. Mi addormentai subito, esausta.

Il resto della settimana passò senza problemi. Mi abituai alla routine delle lezioni. Il venerdì sapevo riconoscere, se non i nomi, i volti di tutti gli studenti. In palestra, i miei compagni di squadra capirono che era meglio non passarmi la palla, e mi si paravano davanti in un baleno se gli avversari cercavano di sfruttare la mia incapacità. Io li lasciavo fare volentieri.

Edward Cullen non tornò a scuola.

Ogni giorno osservavo con ansia i suoi fratelli che arrivavano a mensa senza di lui. Allora mi rilassavo e mi univo alla conversazione del giorno. Questa girava attorno a una gita al parco marino di La Push che Mike voleva organizzare di lì a due settimane. Mi avevano invitata e avevo accettato di andarci, più per gentilezza che per entusiasmo. Le spiagge, di solito, sono calde e asciutte.

A quel punto, nemmeno entrare nell’aula di biologia era un problema, perché non mi preoccupavo più della presenza di Edward. Per quel che ne sapevo, aveva lasciato la scuola. Cercavo di non pensarci, ma non riuscivo a soffocare del tutto il dubbio che la causa delle sue continue assenze fossi io, per quanto ridicolo potesse sembrare.

Anche il primo fine settimana a Forks passò senza problemi. Charlie non era abituato a trascorrere il suo tempo libero nella casa vuota, perciò lavorava anche di sabato e domenica. Io feci un po’ di pulizie, mi portai avanti con i compiti e spedii qualche altra e-mail forzatamente sdolcinata a mia madre. Il sabato, feci un giro in biblioteca, ma era talmente poco fornita che non chiesi neanche la tessera; decisi di prendermi un giorno per visitare Olympia o Seattle, in cerca di una buona libreria. Mi chiesi distrattamente quanti chilometri facesse con un litro il mio pick-up... e tremai al solo pensiero.

Durante il weekend la pioggia cadde leggera e silenziosa, e dormii sempre tranquilla.

Il lunedì mattina successivo, i ragazzi che incontravo nel parcheggio della scuola mi salutavano. Non ricordavo i loro nomi, ma restituivo i saluti e sorridevo a tutti. Faceva più freddo, ma per fortuna non pioveva. Durante la lezione di inglese, Mike si sedette accanto a me, come al solito. A sorpresa, il professore ci diede un questionario su Cime tempestose. Era elementare, molto facile.