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Sentì cambiare il mio tono di voce. Mi guardò torvo. «A quanto pare non sono abbastanza forte da poterti stare lontano, perciò immagino che alla fine farai a modo tuo... anche a costo di farti uccidere». Aggiunse quelle ultime parole in tono sgarbato.

«Bene». Non aveva promesso però, e la cosa non mi era sfuggita. Trattenevo a stento il panico; non mi era rimasto un briciolo di forza per controllare la rabbia. «Hai detto che ti sei fermato... adesso voglio sapere perché».

«Perché?».

«Perché l’hai fatto. Perché non hai lasciato che il veleno entrasse in circolo? A quest’ora sarei uguale a te».

I suoi occhi diventarono neri e opachi, e ricordai che lui non aveva mai voluto che scoprissi certi particolari. Alice, probabilmente, era occupata a mettere ordine in ciò che aveva scoperto della propria vita... oppure aveva trattenuto i pensieri in presenza di Edward. In ogni modo, era chiaro: lui non sospettava affatto che la sorella mi avesse spiegato la meccanica delle trasformazioni vampiresche. Era sorpreso e infuriato. Dilatò le narici, la sua bocca sembrava incisa nella pietra.

Non intendeva degnarmi di una risposta, era evidente.

«Sono la prima ad ammettere di non essere esperta di relazioni», dissi io, «ma mi sembra quantomeno logico... tra un uomo e una donna deve esserci una certa parità... per esempio, non può toccare sempre a uno solo dei due salvare l’altro. Devono potersi salvare a vicenda».

Seduto sul bordo del letto, incrociò le braccia e ci affondò il mento. Sembrava più tranquillo, tratteneva la sua furia. Evidentemente aveva deciso di arrabbiarsi con qualcun altro. Speravo di poter avvertire Alice prima che la incrociasse.

«Ma tu mi hai salvato», disse piano.

«Non posso essere sempre Lois Lane. Voglio essere anche Superman».

«Non sai cosa mi stai chiedendo». Parlava in tono pacato. Fissava il bordo della federa.

«Invece credo di sì».

«Bella, non te ne rendi conto. Ci penso da quasi novant’anni e non mi sono ancora fatto un’idea».

«Vorresti che Carlisle non ti avesse salvato?».

«No, non è così». S’interruppe qualche istante. «Ma la mia vita era giunta al termine. Non stavo rinunciando a niente».

«La mia vita sei tu. Soffrirei davvero soltanto se perdessi te». Stavo migliorando. Era facile ammettere a che punto avessi bisogno di lui.

Ma Edward restava calmo. Deciso.

«Non posso farlo, Bella, e non lo farò».

«Perché no?». Avevo la gola secca, le parole non uscivano chiare come desideravo. «E non dirmi che è troppo difficile! Dopo oggi, o qualche giorno fa, quando è stato... be’, dopo tutto questo, dovrebbe essere una passeggiata!».

Mi squadrò.

«E il dolore?», chiese.

Sbiancai. Non potei impedirmelo. Ma cercai di non far trapelare quanto bene ricordassi quella sensazione... il fuoco nelle vene.

«È un problema mio. Posso cavarmela».

«A volte capita di trascinare il coraggio fino al punto in cui diventa pazzia».

«Poco importa. Tre giorni. Cosa vuoi che siano».

Edward reagì con una smorfia alle mie parole: dimostravo di essere più informata di quanto lui avrebbe desiderato. Lo vidi reprimere la rabbia e tornare a riflettere.

«E Charlie?», chiese all’improvviso. «Renée?».

Restai in silenzio, cercavo disperatamente una risposta, e i minuti passavano. Aprii la bocca, senza emettere suono. La richiusi. Lui aspettava, con espressione trionfante, perché sapeva che non avevo una risposta degna di questo nome.

«Senti, nemmeno quello è un problema», bofonchiai infine; il mio tono di voce era poco convincente, come ogni volta che mentivo. «Renée ha sempre scelto ciò che le sembrava più giusto; non si opporrebbe se mi comportassi nello stesso modo. E Charlie si riprenderebbe, è flessibile, e si era abituato a stare da solo. Non posso badare a loro per sempre. Io voglio vivere la mia vita».

«Appunto. E non sarò io a farla terminare».

«Se aspettavi che fossi sul letto di morte, sappi che ci sono stata eccome!».

«Sì, però ti rimetterai».

Respirai a fondo per tranquillizzarmi, senza badare alla fitta nelle costole. Lo fissai, e lui mi restituì lo sguardo. La sua espressione non ammetteva compromessi.

«Invece no», risposi, piano.

Aggrottò le sopracciglia. «Certo che sì. Al massimo ti resteranno un paio di cicatrici...».

«Ti sbagli. Morirò».

«Sul serio, Bella». Si era innervosito. «Tra qualche giorno ti dimetteranno. Due settimane al massimo».

Lo inchiodai con uno sguardo: «Forse non morirò subito... ma prima o poi succederà. Ogni giorno, ogni minuto, quel momento si avvicina. E diventerò vecchia».

Si rabbuiò quando capì cosa intendevo, chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «È così che succederà. Come dovrebbe succedere. Come sarebbe successo se io non fossi esistito... e io non sarei dovuto esistere».

Sbuffai. Lui aprì gli occhi, sorpreso.

«Che stupidaggine. Mi sembra di sentire il vincitore di una lotteria che, dopo avere riscosso il premio, dice: “Ehi, torniamo indietro alla normalità, è meglio così”. Non me la dai a bere, sai».

«Sono tutt’altro che il premio di una lotteria».

«È vero. Sei molto meglio».

Alzò gli occhi e strinse le labbra. «Bella, non voglio più parlarne. Mi rifiuto di condannarti a un’eternità di notti e buio, punto e basta».

«Se pensi che possa finire qui, vuol dire che non mi conosci bene. Non sei l’unico vampiro che conosco». Il mio era un avvertimento.

I suoi occhi ridiventarono neri. «Alice non oserebbe».

E per un istante mi spaventò a tal punto da essere costretta a credergli: non riuscivo a immaginare nessuno tanto coraggioso da mettersi contro di lui.

«Alice ha già visto tutto, vero? Per questo ce l’hai con lei. Sa che un giorno... diventerò come te».

«Si sbaglia. Se è per questo, ti ha anche vista morta, ma non è accaduto».

«Per quel che mi riguarda, non scommetterò mai contro di lei».

Ci squadrammo a lungo. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio delle macchine, dai bip, dal gocciolare della flebo e dai rintocchi dell’orologio a muro. Finalmente, il suo viso si rilassò.

«Dunque la conclusione è...?», domandai.

Lui sorrise amaro. «Mi sembra che si chiami impasse».

Feci un sospiro ed emisi un gemito di dolore.

«Come ti senti?», chiese Edward, lanciando un’occhiata verso l’interfono.

«Bene». Mentivo.

«Non ti credo», rispose lui, delicato.

«Non ho intenzione di rimettermi a dormire».

«Hai bisogno di riposo. Tutto questo discutere non ti fa bene».

«Allora arrenditi».

«Bel colpo». Schiacciò l’interruttore.

«No!».

Non mi ascoltava.

«Sì?», gracchiò l’altoparlante dal muro.

«Credo che siamo pronti per un’altra dose di tranquillanti», disse Edward calmo, ignorando la mia espressione infuriata.

«Mando un’infermiera». La voce sembrava molto annoiata.

«Non li prendo».

Lui guardò il sacchetto di liquido che penzolava sopra il mio letto. «Non credo che ti chiederanno di ingoiare nulla».

Il mio cuore iniziò ad accelerare. Vide la paura nei miei occhi e sbuffò, spazientito.

«Bella, tu stai male. Hai bisogno di rilassarti per guarire. Perché sei così ostinata? Non serviranno altri aghi né cose del genere».

«Non ho paura degli aghi», mormorai, «ho paura di chiudere gli occhi».

Lui sfoderò il suo sorriso sghembo e mi prese la testa tra le mani. «Ti ho detto che non andrò da nessuna parte. Non avere paura. Fino a quando lo vorrai, io starò qui».

Sorrisi, ignorando il dolore nelle guance: «Stai parlando dell’eternità, lo sai».

«Oh, te la farai passare... è soltanto una cotta».

Scossi la testa incredula, e mi vennero le vertigini. «Quando Renée se l’è bevuta ci sono rimasta quasi male. Sai bene che non è così».

«È il bello di essere umani», rispose lui. «Le cose cambiano».

Socchiusi gli occhi: «Non trattenere il respiro, mentre aspetti che accada».

Quando entrò l’infermiera, con la siringa in mano, Edward rideva.

«Mi scusi», gli disse lei brusca.

Lui si alzò, attraversò la stanza e si appoggiò al muro. Incrociò le braccia in attesa. Io non gli staccavo gli occhi di dosso, ancora in apprensione. Lui ricambiava con uno sguardo rilassato.

«Ecco fatto, cara», disse l’infermiera sorridente, mentre iniettava il medicinale nel tubo. «Adesso starai meglio».

«Grazie», bofonchiai senza entusiasmo. L’effetto fu immediato. Sentii subito il torpore nelle vene.

«Così dovrebbe andare», mormorò l’infermiera, mentre le mie palpebre cedevano.

Capii che se ne era andata quando qualcosa di freddo e liscio mi sfiorò le guance.

«Resta», biascicai.

«Si, te lo prometto». La sua voce era bellissima, come una ninna nanna. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la cosa migliore per te».

Cercai di scuotere la testa, ma era troppo pesante. «... ’n è la stessa cosa», farfugliai.

Lui rise. «Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possiamo ricominciare a discutere quando ti svegli».

Sorrisi, forse. «...’a bene».

Sentii le sue labbra vicino all’orecchio.

«Ti amo», sussurrò.

«Anch’io».

«Lo so», e rise, sottovoce.

Voltai la testa lentamente... in cerca. Sapeva di cosa. Le sue labbra sfiorarono le mie, con delicatezza.

«Grazie», mormorai.

«Di niente».

Non ero più tanto presente. Combattevo stancamente contro lo stordimento. Mi restava una sola cosa da dirgli.

«Edward?». Pronunciare il suo nome correttamente era una faticaccia.

«Sì?».

«Io scommetto su Alice».

E la notte si chiuse su di me.