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«È il bello di essere umani», rispose lui. «Le cose cambiano».

Socchiusi gli occhi: «Non trattenere il respiro, mentre aspetti che accada».

Quando entrò l’infermiera, con la siringa in mano, Edward rideva.

«Mi scusi», gli disse lei brusca.

Lui si alzò, attraversò la stanza e si appoggiò al muro. Incrociò le braccia in attesa. Io non gli staccavo gli occhi di dosso, ancora in apprensione. Lui ricambiava con uno sguardo rilassato.

«Ecco fatto, cara», disse l’infermiera sorridente, mentre iniettava il medicinale nel tubo. «Adesso starai meglio».

«Grazie», bofonchiai senza entusiasmo. L’effetto fu immediato. Sentii subito il torpore nelle vene.

«Così dovrebbe andare», mormorò l’infermiera, mentre le mie palpebre cedevano.

Capii che se ne era andata quando qualcosa di freddo e liscio mi sfiorò le guance.

«Resta», biascicai.

«Si, te lo prometto». La sua voce era bellissima, come una ninna nanna. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la cosa migliore per te».

Cercai di scuotere la testa, ma era troppo pesante. «... ’n è la stessa cosa», farfugliai.

Lui rise. «Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possiamo ricominciare a discutere quando ti svegli».

Sorrisi, forse. «...’a bene».

Sentii le sue labbra vicino all’orecchio.

«Ti amo», sussurrò.

«Anch’io».

«Lo so», e rise, sottovoce.

Voltai la testa lentamente... in cerca. Sapeva di cosa. Le sue labbra sfiorarono le mie, con delicatezza.

«Grazie», mormorai.

«Di niente».

Non ero più tanto presente. Combattevo stancamente contro lo stordimento. Mi restava una sola cosa da dirgli.

«Edward?». Pronunciare il suo nome correttamente era una faticaccia.

«Sì?».

«Io scommetto su Alice».

E la notte si chiuse su di me.

Epilogo

Un’occasione

Edward mi aiutò a salire sulla sua auto, attento a non rovinare gli svolazzi di seta e chiffon del mio vestito, i fiori che aveva appena appuntato sui miei riccioli acconciati alla perfezione e l’ingombrante ingessatura alla gamba. Ignorò la mia espressione scocciata.

Dopo avermi sistemata sul sedile, si accomodò al posto di guida e fece retromarcia sul viale lungo e stretto.

«Posso sapere quando ti prenderai la briga di rivelarmi cosa sta succedendo?», chiesi, scontrosa. Odiavo sinceramente le sorprese. E lui lo sapeva.

«È assurdo che tu non abbia ancora capito». Ridacchiava di un riso beffardo che mi tolse il respiro. Mi sarei mai abituata a tutta quella perfezione?

«Ti ho informato del fatto che sei molto carino, vero?».

«Sì». Sorrise ancora. Non l’avevo mai visto vestito di nero, e il contrasto dell’abito con la carnagione pallida rendeva la sua bellezza assolutamente surreale. Non potevo negarlo, benché il fatto che indossasse uno smoking mi rendesse molto nervosa.

Mai nervosa quanto mi rendeva il mio vestito. E la scarpa. Solo una, visto che l’altro piede era ancora alloggiato nell’ingessatura. Ma il tacco a spillo ancorato al mio piede solo da un laccetto di seta non mi avrebbe affatto aiutata a zampettare in giro.

«Non verrò mai più da nessuna parte con te, se mi toccherà di nuovo farmi trattare da Alice come Barbie-cavia-da-laboratorio», brontolai. Avevo trascorso quasi l’intera giornata nel bagno di Alice, tanto grande da potercisi perdere, vittima inerme di lei che giocava alla parrucchiera e alla truccatrice. Ogni volta che mi lamentavo o le suggerivo qualcosa, mi pregava, visto che non aveva memoria del suo essere stata umana, di non rovinarle quel divertimento. Poi mi aveva costretta a indossare il più ridicolo dei vestiti: blu scuro, pieno di trine e senza spalline, con un sacco di etichette francesi che non capivo. Si addiceva più a una passerella di moda che a Forks. Il nostro abbigliamento formale non prometteva niente di buono, di questo ero sicura. A meno che... ma avevo paura di tradurre i miei sospetti in parole o in pensieri.

A quel punto fui distratta dallo squillo di un telefono. Edward estrasse il cellulare da una tasca della giacca e per un istante osservò il numero sul display.

«Pronto, Charlie», disse sospettoso.

«Charlie?».

Charlie era diventato un po’... difficile, da quando ero tornata a Forks. La sua reazione alla mia brutta esperienza si era scissa in due compartimenti stagni. Da una parte, la sua gratitudine per Carlisle sfiorava l’adorazione. Dall’altro, era testardamente convinto che fosse colpa di Edward, perché, se non fosse stato per lui, non me ne sarei mai e poi mai andata di casa. Edward, da par suo, era tutt’altro che in disaccordo. A questo punto, dovevo obbedire a regole del tutto nuove: coprifuoco... e orari di visita.

Alle parole di Charlie Edward strabuzzò gli occhi incredulo, poi scoppiò in un gran sorriso.

«Sta scherzando!».

«Che c’è?», chiesi io.

Non mi ascoltò. «Posso parlargli io?», suggerì, palesemente solleticato dall’idea. Attese qualche secondo.

«Ciao Tyler, sono Edward Cullen». All’apparenza era molto amichevole. Ma ormai conoscevo abbastanza bene la sua voce da cogliervi un vago tono di minaccia. Che ci faceva Tyler a casa mia? Iniziai a intuire la terribile verità. Osservai ancora il vestito fuori luogo in cui Alice mi aveva costretta a entrare.

«Mi dispiace che ci sia stato un fraintendimento, ma Bella è occupata, stasera». Poi cambiò tono e si fece apertamente minaccioso: «Anzi, per la verità è occupata tutte le sere, per chiunque, escluso il sottoscritto. Senza offesa. Spiacente se la tua serata non andrà come speravi». Non sembrava affatto dispiaciuto. Fece scattare lo sportellino del telefono e chiuse la comunicazione, ridendo soddisfatto.

Arrossii di rabbia. Sentivo già lacrime di irritazione pronte a salire.

Lui mi guardò sorpreso: «Credi che abbia esagerato un po’? Non volevo essere offensivo riguardo a te».

Lo ignorai.

«Mi stai portando al ballo di fine anno!», strillai.

Era un’ovvietà tale da mettermi in imbarazzo. Se ci avessi fatto caso, avrei notato la data sui manifesti che tappezzavano la scuola. Ma ero convinta che nemmeno per scherzo mi avrebbe fatto subire un’umiliazione del genere. Non mi conosceva?

Di sicuro non si aspettava una reazione tanto energica. Mi guardò serio, a denti stretti: «Non fare la difficile, Bella».

Lanciai uno sguardo al finestrino: eravamo già a metà strada.

«Perché mi stai facendo questo?», chiesi, terrorizzata.

Lui indicò il suo smoking. «Sinceramente, Bella, dove credevi che ti volessi portare?».

Ero mortificata. Prima di tutto, perché l’evidenza mi era sfuggita. E poi, perché i vaghi sospetti - speranze, in realtà - che avevo avuto nel pomeriggio, mentre Alice tentava di trasformarmi in una reginetta di bellezza, erano lontanissimi dal vero. Le mie speranze velate di paura, a quel punto, sembravano un’idiozia.

Avevo intuito che fosse un’occasione speciale. Ma non il ballo! Era l’ultimo dei miei pensieri.

Sentii lacrime di rabbia scorrermi sulle guance. Ricordai con fastidio che, contro le mie abitudini, avevo il mascara. Mi strofinai subito sotto gli occhi per evitare di macchiarmi. La mano non era sporca: la saggia Alice aveva scelto cosmetici resistenti all’acqua.

«È ridicolo. Perché piangi?», chiese irritato.

«Perché mi hai fatta arrabbiare!».

«Bella». Mi colpì con tutta la forza dei suoi occhi dorati e ardenti.

«Cosa?», mormorai, turbata.

«Assecondami. Per piacere».

Il suo sguardo aveva sciolto tutta la mia furia. Era impossibile litigare, quando barava in quel modo. Mi arresi, tutt’altro che di buon grado.

«Bene», mormorai, incapace di squadrarlo come mi sarebbe piaciuto. «Te la do vinta. Ma vedrai. È un bel po’ che non m’imbatto in una vera disgrazia. Come minimo mi romperò l’altra gamba. Guarda la scarpa! È una trappola mortale!». Gli mostrai la gamba buona per convincerlo.

«Mmm». La fissò molto più a lungo del necessario. «Stasera voglio ringraziare Alice, ricordamelo».