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«Piacere» disse, con cortesia formale, chiedendosi se fosse corretto stringerle la mano. «Siete forse la... la moglie del Presidente?»

Lei prese posto sulla sedia accanto. «Tanto per la cronaca, spero di non sembrare la moglie di nessuno. Sono la figlia, signor Markham. Allora cosa vogliamo ordinare? Avete appetito?»

«Veramente no, signorina Bertrand. Io...»

«Chiamami pure Vivain, io ti chiamerò John. Quel ridicolo androide ha sciupato tutto. Ha proprio biso­gno di essere riprogrammato. Bene, se non hai fame, prenderemo solo un tè e un po’ di torta.»

Non aveva ancora finito di parlare, quasi, che ap­parve un androide col vassoio: servì tè e torta in si­lenzio, e si ritirò. Vivain Bertrand allungò un braccio ben tornito e premette un pulsante al centro del ta­volino. Immediatamente un cilindro trasparente di plastivetro salì dal pavimento attorno al tavolino e al­le sedie. Il sottofondo di rumori del ristorante venne completamente tagliato fuori, e Markham ebbe l’impressione di essere precipitato all’improvviso in una vasca di pesci assieme a Vivain Bertrand.

Lei rise, toccò un altro bottone, e il cilindro si fece azzurrognolo e lattiginoso, perdendo la trasparenza. «Ora siamo davvero nell’intimità» spiegò lei. «Così resta isolato anche il microfono... Li chiamiamo oubliettes.»

«È la mia prima esperienza in fatto di oubliettes.»

Lei gli diede un’occhiata inquisitrice. «Gli uomini e le donne del ventesimo secolo non ci tenevano a re­stare soli?»

«Nel bel mezzo di un ristorante... per lo meno, no, e comunque non così.»

Vivain era sorpresa. «Dovevano essere molto inco­stanti, allora.»

Lui non seppe cosa rispondere a quell’osservazione, e rimase zitto.

«Devi raccontarmi tutto sulla gente della tua epo­ca» proseguì lei. «Ardo dalla curiosità di sapere co­m’erano effettivamente... È vero quello che hai detto alla televisione? Eri davvero fedele a tua moglie?»

Markham si sentiva come un bambino che confessa una scorreria nella dispensa. «Sì, verissimo.»

«Che creatura incredibile!»

«Il termine usato oggi è barbaro sessuale, credo» disse lui seccamente.

Vivain riuscì a costringerlo a guardarla negli occhi. «Sono certa che sapresti essere veramente barbaro» mormorò.

Oltre a essere fisicamente la donna più conturbante che lui avesse mai incontrato, c’era un’altra qualità, in Vivain, che lo affascinava. Ogni suo gesto dava una sensazione di potere represso, di forza psicologica trat­tenuta, come una molla compressa. Si sorprese a chie­dersi come sarebbe stata se la molla fosse scattata, e intuì che doveva essere pericolosa, sotto ogni aspetto. Ugualmente pericolosa, nella vittoria come nella sconfitta... Era una donna, concluse, essenzialmente vulca­nica; e probabilmente dotata dell’energia distruttiva propria dei vulcani.

«Sembri smarrito» disse Vivain. «Come un orso polare ai tropici. Doveva essere malinconica la vostra epoca! Immagino che il contrasto ti renderà legger­mente psicopatico per un certo tempo, ma in modo spassoso. Sarò io la tua custode. Deve essere divertente osservare le tue reazioni.»

«Spero di non deluderti troppo» disse lui, senza scomporsi.

Vivain gli sorrise. «Non credo. Probabilmente in te si annidano più inibizioni che in tutti i Fuggiaschi della Repubblica riuniti insieme.»

«Può darsi che le mie inibizioni mi piacciano.»

«Può darsi che piacciano anche a me» disse lei. «Lo sento... combatteremo una guerra privata. Cia­scuno tenterà di modificare l’altro senza esclusione di colpi. Le tue idee contro le mie. Vedremo chi sarà il migliore, e il più forte. Accetti la sfida, caro nemico?»

Markham si sentiva decisamente a disagio. Le cose procedevano a un passo che lo stordiva addirittura.

«Sono troppo intento a chiedermi come ci siamo trovati a parlare in questo modo» disse, e aggiunse:

«Forse dovrei comportarmi con maggior rispetto con la figlia del Presidente.»

Lei rise. «Solo se io volessi. Ma non voglio. Sei trop­po interessante perché io voglia tenerti a distanza, John. Non tutti i giorni si incontra un uomo di qua­si due secoli.»

«Non esageriamo, prego. Sono un ragazzino di soli centosettantasette anni.»

«E molto ben conservato» disse lei. «Cosa ne pen­si della City? Non ti pare che l’abbiamo migliorata? Non posso pensare a come doveva essere quando ci vivevano milioni di persone. Una massa di corpi che si agitavano, immagino... Che cosa ripugnante!»

«Non ho ancora avuto il tempo di chiarire le mie impressioni» rispose Markham prudente. «Ho dovu­to registrarmi nel’Elenco, e trovarmi una casa.»

«Sei stato svelto. Dove abiti?»

«Rutland House, Knightsbridge.»

«La conosco. Un vecchio museo ancora in piedi. È per questo che l’hai scelta?»

«Precisamente» disse lui. «Ormai sono anch’io un pezzo da museo.»

Vivain finì il suo tè. «Ma non per molto» disse in tono profetico. «Me ne occuperò io. Si dà il caso che siamo quasi vicini, John. Io ho un alloggio in Park Lane. Sto a De Havilland Lodge.» Guardò l’orologio da polso. «A quest’ora dovrei essere all’Olimpic Club... Vieni a trovarmi stasera. Alle dieci e mezzo, e senza androide. Potrai parlarmi della tua antiquata famiglia e del tuo secolo sorpassato.»

Schiacciò il pulsante e l’oubliette rientrò nel pavi­mento.

«Ma io...» Markham non poté proseguire oltre.

«Niente ma, caro nemico. Sono la figlia del Presi­dente» lo avverti lei con un sorriso allegro. «Un er­rore di tattica, e tornerai in A.S.»

«Davvero?»

«Sciocco! Stasera ti farò guarire un po’ da quella tua serietà antidiluviana. Ciao, John. Curati le tue ini­bizioni!»

E se ne andò in fretta, prima che lui potesse formu­lare un rifiuto diplomatico. Vivain Bertrand gli aveva messo addosso una strana tensione. Si trattenne nel ri­storante per qualche altro minuto, meditando sull’in­contro e cercando di analizzare la propria reazione. Ma non venne a capo di niente, e rinunciò.

Poi si ricordò di Marion che lo stava aspettando nell’eliauto. Uscì per raggiungerla. Si sentiva in un certo senso vendicato per la mancanza di entusiasmo con la quale lei aveva accolto il braccialetto di platino, pur sapendo benissimo che l’androide non poteva sentire né entusiasmo né umiliazione. Ritornarono in Knightsbridge in silenzio. Markham aprì la porta del suo ap­partamento proprio mentre squillava il visifono.

«Come funziona questo coso?» chiese irritato.

Marion-A abbassò una piccola leva posta di fianco allo schermo, poi si scostò per uscire dal raggio visivo. Lo schermo si animò, e sul video apparve la testa di una ragazza. Capelli scuri, faccia dai lineamenti mo­bili, vent’anni circa.

«Ciao, tesoro» disse, disinvolta. «Benvenuto in questo tugurio. Proprio il genere di tana che usavano nel ventesimo secolo, eh? Adesso devi, ripeto devi, scen­dere immediatamente a bere qualcosa con noi, subito, in questo istante, eccetera. Niente scuse, tesoro. Mo­riamo dalla voglia di conoscerti. E lascia a casa il tuo A.P. I nostri li abbiamo mandati a spasso per un’oret­ta... Sai, qualche volta ci si stanca di vederli tra i pie­di. Oh, dimenticavo! Sono Shawna Vandellay, abito proprio sotto di te, nell’appartamento Due.»

«Salve» disse Markham, un po’ intontito da quel fiume di parole. «Io mi chiamo...»

«Sappiamo tutto, tesoro. Sei l’incredibilmente ro­mantico Sopravvissuto. In confidenza, potrei interpre­tarti tragicamente. Saresti una divinità superba. Una specie di Orfeo, credo. Tanto più che hai avuto un inferno tutto tuo. Ma purtroppo non sei un tipo mu­sicale, vero?»

«No, non ho alcun talento particolare... né divino, né artistico.» Pensava che quella ragazza fosse un po’ matta.

«Tesoro» disse lei «stiamo sprecando elettronica­mente tonnellate di sforzo psicosomatico. Ci vediamo tra venti secondi.» Un ultimo sorriso radioso, poi lo schermo si spense.