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Markham guardava, affascinato, mentre il finto So­pravvissuto, dopo essersi risvegliato dall’A.S. mostrava con la mimica orrore per l’androide e disgusto verso gli approcci della ballerina. Infine il Sopravvissuto ballava disperato attorno alle figure spettrali di sua moglie e dei suoi figli, cercando invano di raggiunger­li attraverso una barriera invisibile.

I gesti imploranti della donna e dei due ragazzi del ventesimo secolo fecero scrosciare le risate fra il pub­blico: soprattutto quando danzarono verso Markham stesso, per rendere più diretta l’allusione. Lui voltò la testa, chiudendo gli occhi per nascondere la propria infelicità. Ma gli ospiti del Presidente interpretarono quel gesto come una pubblica ripulsa verso l’antiqua­to concetto della vita di famiglia e le loro risate, che l’imbarazzo aveva un poco trattenuto, crebbero di in­tensità. Poi, quando il finto Sopravvissuto, conscio del­l’impossibilità di raggiungere la famiglia, crollò a ter­ra in un atteggiamento di disperazione, la musica ven­ne quasi coperta dal boato degli spettatori.

Infine l’androide personale convinceva il Sopravvis­suto a ricomporsi. L’uomo saltava in piedi, ricacciava nel buio la sua famiglia con un gesto noncurante del­la mano, ed eseguiva una breve danza di liberazione. Cambiando simbolicamente i propri abiti antiquati per altri moderni, si univa poi alla ballerina in una danza frenetica che terminava con l’inevitabile unio­ne felice. La sequenza finale mostrava il Sopravvissuto, che dopo essersi innamorato della ballerina, scopriva che moglie e figli si erano materializzati di nuovo. Al­lontanandosi da loro con disgusto, ordinava all’an­droide personale e al coro di portarli via.

Mentre la scena s’inabissava nel pavimento, Mar­kham sentì una mano sul braccio. «John caro, mi di­spiace tanto» mormorò Vivain. «Se avessi potuto im­maginare, avrei detto a Clement di mettere il veto.»

«Che importanza ha?» disse Markham controllan­do la voce. «In fin dei conti, tutti si sono divertiti un mondo.»

«Tranne te» disse Vivain «e me. Ti ha fatto mol­to male, vero?»

Lui le sorrise. «No. Ormai mi sto corazzando con­tro i tempi nuovi.»

«È stato un vero delirio» disse Algis Norvens con un largo sorriso. «Chissà chi avrà avuto una simile ispirazione?»

«Già, chissà?» disse Markham. «Mi piacerebbe congratularmi con l’autore.» E guardò Vivain con aria inquisitrice.

«Non lo so» confessò lei. «Di solito è Solomon che organizza gli spettacoli e le attrazioni. Lui dovreb­be saperlo. Vuoi che glielo chieda?»

«Lascia stare. Pensavo già che Solomon c’entrasse per qualcosa.»

Con silenziosa rapidità, gli androidi stavano sparec­chiando, e altri servivano caffè e liquori. Nel frattem­po, attraverso il pavimento sorse un ampio palcosce­nico circolare.

La scena che comparve fu salutata da uno scroscio di risate, misto a grida di meraviglia. Ma dopo aver osservato per pochi secondi, con occhi assolutamente increduli, il nuovo spettacolo, Markham si sentì pren­dere dalla nausea.

Sulla scena c’erano tre personaggi abbigliati in mo­do complicato: una donna con due teste, una delle quali aveva una faccia infantile, mentre l’altra l’ave­va stranamente matura, un uomo con quattro braccia, un altro uomo con una lunga coda prensile.

I tre mimavano l’antico tema della rivalità, i due uomini intenti a dimostrare i vantaggi specialissimi della propria afflizione. Quello dalle quattro braccia offriva fiori, dolciumi, profumi e un mantello da sera con due cappucci come segni della sua ammirazione. Poi la donna eseguiva con lui una breve danza, du­rante la quale l’uomo la conduceva ballando con due braccia, mentre con le altre due le accarezzava la fac­cia infantile. Alla fine il rivale, stanco della scena, lo afferrava per le caviglie con la coda facendolo cadere a terra. A sua volta, poi, danzava con la donna, con­centrando la sua attenzione sulla faccia matura e usando la coda in modo tale da dare quasi le convulsioni al pubblico.

Markham sentì di non poter assistere oltre alla sce­na odiosa, ma mentre si alzava per allontanarsi dal suo posto, Vivain lo trattenne.

«Devi ringraziare solo il ventesimo secolo per que­sto, John» gli disse molto seria. «Le mutazioni cau­sate dai Nove Giorni si verificano ancora. E gli scien­ziati androidi dicono che ne avremo per altri mille anni... Pensi che siamo duri e insensibili, vero? Ci giu­dichi decadenti e marci. Ma forse questo è soltanto un modo per tenere presenti gli orrori della guerra.»

Markham tentò di trovare una risposta soddisfacen­te, ma non ne trovò. Per lo meno non ne trovò una veramente onesta.

Alla fine la macabra esibizione terminò. Il palco di­sparve tra gli applausi e gli scrosci di risa. Ma c’era qualcosa di curioso in quelle risate, pensò Markham. Contenevano una nota isterica... in particolare quelle delle donne. Si disse che tutti, in fondo, erano vittime dei Nove Giorni. Per la prima volta cominciò a pro­vare verso tutti un senso di pena.

Algis Norvens si rivolse a Markham con un sorriso bizzarro.

«L’avete trovato divertente?»

«Niente affatto. E voi?»

«Se non ridessimo» rispose Norvens, sorprendendo Markham, «dovremmo diventare pazzi di rabbia. Ec­co perché ridiamo. La tragedia diventa uno scherzo e lo scherzo finisce col perdere a poco a poco tutto l’a­maro.»

Lo sbalordimento di Markham crebbe. Un momen­to la gente del ventiduesimo secolo sembrava dura e insensibile, un attimo dopo tutti lasciavano trapelare squarci di sensibilità e di sofferenza.

Stava per interrogare Norvens sulle possibilità di procurarsi l’eutanasia, quando apparve la diversione finale. L’ultimo trattenimento consisteva in una gros­sa palla di vetro o plastica trasparente, con un sedile sospeso al centro in modo tale che, da qualunque par­te la palla girasse, il sedile conservava la sua posizione verticale. Su questo sedeva un bambino di circa dieci anni. Ma osservandolo meglio, Markham notò che, in contrasto col resto del corpo, la faccia del bambino era incredibilmente avvizzita e rugosa, come quella di un vecchio.

Nella bolla c’era una piccola apertura, attraverso la quale usciva un intenso raggio di luce rossa provenien­te da un congegno che il bambino stringeva nella ma­no.

Un androide, che con un braccio sosteneva senza fa­tica la bolla, annunciò che essa conteneva Sylvero, il famoso chiaroveggente e lettore del pensiero.

Appena l’androide ebbe finito di parlare, Sylvero salutò l’assemblea e sorrise amabilmente. Poi, a un se­gno simultaneo del Presidente e di Solomon, l’androi­de fece roteare la bolla così che il raggio di Sylvero cadde sulla faccia di un commensale.

Markham vide l’uomo spalancare gli occhi e restare inebetito con lo sguardo fisso e inespressivo, mentre il suo corpo si irrigidiva.

Poi Sylvero parlò, e la vocetta sottile era resa com­prensibile da un amplificatore.

«Il soggetto si chiama Orland Joyce. Ha trentotto anni e ha subito tre mesi di A.S. Ha amato undici don­ne e ne ha resa madre una. A tredici anni riuscì a di­struggere un androide restando impunito, il che gli procurò un complesso di colpa e un terrore morboso delle identità nonbiologiche. A sedici anni amò una donna di ventisei, che in seguito divenne una Fuggia­sca e venne consegnata a una squadra psichiatrica dal soggetto stesso. A ventidue anni vinse il campionato di sci aereo alle Olimpiadi di Londra. A ventisette an­ni esibì dieci sculture alla Mostra d’Arte della Repubblica e ricevette il Turbante d’Oro. A trentatré anni procreò un normale. Stasera allaccerà una relazione con una donna che ha i capelli azzurri e una veste di columino. Domani si recherà nella Scozia per i Gio­chi Autunnali. Poi passerà due mesi nella City prima di partire per un corso di cultura psichica. A quarantun anni metterà al mondo un altro normale. A quarantasette anni resterà gravemente menomato in uno sport marino che non è ancora stato scoperto... Non è permesso dichiarare l’età in cui il soggetto cesserà di vivere. Non dirò altro.»