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Markham si irrigidì suo malgrado.

«Non preoccupatevi» continuò il Presidente. «È ancora vivo e libero. Almeno spero. Ma se lo vedeste di nuovo, avvertitelo di non sperare in eterno nei mi­racoli.»

«Come fate a sapere che l’ho incontrato, signore?»

«Me l’avete lasciato capire voi stesso... Un’altra cosa. C’è il problema di voi e di mia figlia.» Guardò calmo Vivain che aveva ascoltato chiusa in un silen­zio sbalordito. «Già, è insolito per te sentirmi parla­re così, vero? Io sono il pupazzo decorativo, l’oratore, l’uomo pieno di paroloni vuoti. Ma talvolta, Vivain, è necessario immettere un po’ di significato in un fiu­me di parole. Ora, per esempio, il momento lo richie­de. Nonostante quello che ho detto prima di cena, i Fuggiaschi sono diventati un problema serio. E loro lo sanno. Stanno cercando una forza unificatrice, un simbolo che possa dare fede agli incerti, attrarre quel­li che ancora non si sono decisi. John non è ancora stato chiamato in causa. Potrebbe non esserlo mai. Po­trebbe perfino orientarsi nella nostra società, e dimo­strare così che Solomon ha torto. Ma non voglio che tu lo veda troppo, per un po’ di tempo. Per lo meno, non voglio che venga risaputo, né dagli androidi né dagli uomini, che tu lo vedi. Mi sono spiegato?»

«E con incredibile solennità, anche» disse Vivain. «Non sapevo che potessi fare del melodramma, Clement.»

«Infatti... Finché non ci sono costretto.»

«Ditemi, signor Presidente» disse Markham, che da un certo tempo stava riflettendo su un punto in particolare «se sono una potenziale minaccia, perché non mi rimandate in A.S. o qualcosa del genere?»

«Per farlo, ci vorrebbero ragioni che potessero sod­disfare i cittadini di Londra. Possiamo sembrarvi decadenti o inefficaci, John. Ma nutriamo ancora qual­che illusione. E anche noi diamo un valore altissimo alle nostre nozioni in fatto di libertà individuale... Al diavolo le mutazioni, per questa sera sono stato abba­stanza solenne. È tempo che intrattenga un po’ gli al­tri ospiti.»

Mentre tornava con Vivain nella Sala Grande, Markham si sentiva veramente perplesso. Gli pareva che, appena formata un’opinione sulla gente e sulle usan­ze del ventiduesimo secolo, l’opinione stessa subisse una smentita immediata.

Trovarono Algis afflitto da un eccesso di danza, di alcol e di compagnia di Marion-A.

«Spero che i giardini tropicali vi siano piaciuti» disse il giovane, con un’occhiata velenosa a Markham.

«Immensamente.»

«Siamo stati a chiacchierare con Clement» disse Vivain in tono conciliante. «Voleva vedere John.»

Norven sorrise ironico. «Tutti vogliono vedere John» disse. «Però io preferisco vedere te.» Si rivol­se a Markham. «Grazie d’avermi prestato l’androide. Ve lo restituisco con gioia... Programmata in modo straordinario, però. E balla meglio di me.»

«Ha molte virtù insospettate» disse Markham, sor­ridendo.

Marion-A ricevette il complimento con un sorriso ri­gido. Molti ospiti avevano già cominciato ad andarse­ne, e Markham si chiedeva se fosse una buona idea tentare una ritirata strategica. Non sopportava più di stare chiuso lì dentro. Inoltre, molte cose erano suc­cesse nel corso della serata. Cose sulle quali doveva riflettere.

Guardò Algis e poi Vivain. E all’improvviso deside­rò allontanarsi da entrambi.

«Sono terribilmente stanco» disse. «Mi sono suc­cesse troppe cose nuove tutte insieme. Ho bisogno di un po’ di riposo... e di solitudine.»

«Sì, immagino che la vita vi sembri ancora un po’ sconvolgente» disse Norvens in tono divertito. «Pren­detela con calma, John, altrimenti diventerete triste.»

Markham sorrise. «Questa è la sera dei consigli sag­gi, pare.» Prese la mano di Vivain. «Ringrazia tuo padre e fagli le mie scuse, vuoi? Digli che rifletterò attentamente su quello che mi ha detto.»

Lei gli strinse gentilmente la mano. «Abbi cura del­la tua psiche primitiva, caro... e non pensare troppo. Ti fa male» gli disse poi.

Lui rise. «Conosco almeno un modo per evitare di essere cerebrale. Posso sempre ricorrervi, non credi?»

«Sì» mormorò Vivain. «E spero che tu lo faccia prestissimo...»

Markham lasciò la Sala Grande con Marion-A al fianco.

Quando uscirono dall’ascensore, ai piedi del Palaz­zo, già il senso di claustrofobia si stava dileguando.

Si sdraiò pigramente sul sedile dell’eliauto, sospirò di sollievo e sentì che la tensione diminuiva. Poi or­dinò a Marion-A di salire con l’eliauto a trecento me­tri. Volle restare fermo lassù per qualche minuto, a contemplare la City; cercava invano di ricordare un sogno che sonnecchiava in fondo al suo cervello. Alla fine vi rinunciò, e l’eliauto scese lentamente verso Knightsbridge.

10

Dapprima, il mondo del ventiduesimo secolo gli era sembrato simile a un sogno incoerente, ma a poco a poco il sogno stava prendendo i contorni di una real­tà accettabile.

Mentre le frizzanti giornate settembrine si accorcia­vano sfumando nella magia solitaria e nebbiosa del­l’ottobre, Markham si accorse che stava orientandosi rapidamente. Tutto quello che in precedenza l’aveva sorpreso e scandalizzato, ora gli ispirava una fredda disapprovazione intellettuale. Tutto quello che prima gli era sembrato grottesco o anormale, gli appariva in­vece inevitabile, quasi naturale, in un mondo che solo adesso cominciava a capire a fondo.

Intravedeva già il problema base. In modo oscuro e personale, stava scegliendone le soluzioni. E il pro­blema era simbolizzato da Marion-A.

Markham ricordava perfettamente il mattino passa­to a Hampstead Heath, e l’incontro col professor Hyggens. Ricordava quasi parola per parola la storia del professore: il modo in cui il numero degli allievi an­droidi del corso di filosofia si era accresciuto fino ad annullare quello degli esseri umani, il collocamento a riposo del professore e l’entrata in carica al suo po­sto di un ex allievo androide, capace di tenere le lezio­ni con maggiore rapidità ed efficienza. Ricordava di avere chiesto al professor Hyggens perché mai gli an­droidi volessero studiare filosofia. E ricordava la ri­sposta.

La filosofia,aveva detto il professore, è vita. Almeno è uno dei grandi aspetti della vita... della vita intelli­gente. Ecco perché gli androidi vogliono immetterla nei loro circuiti. Così possono valutare i problemi del­la vita.

Poi c’era stata l’altra domanda, che il professor Hyg­gens gli aveva fatto a bruciapelo: hai mai cercato di definire la vita, John?

Mentre meditava sulla discussione che aveva avuto luogo in Hampstead Heath, Markham si lambiccava di nuovo con la definizione elusiva del concetto vita.

Ma voleva immagini, non concetti. Voleva elementi comuni per poterli riconoscere e dire: questa è la na­tura della vita. Questa è la base di tutte le cose viventi.

Le immagini erano acute e chiarissime, ma il loro elemento comune, il fattore x, era, quando si veniva ad esaminarlo, più elusivo del significato di musica, e tuttavia a portata di mano come il segreto della poe­sia.

Immaginò in accostamento Budda e un singolo bat­terio, Leonardo da Vinci e un grano di frumento, una sequoia e una spora di fungo. Pensò a Johnny e a Sa­rah. Ma il fattore x continuava a sfuggirgli. Poi, final­mente, si ricordò di un’immagine doppia. Un’immagi­ne che poneva il problema in termini semplici e assolu­ti. Pensò a Katy e a Marion-A.

Katy era stata viva e adesso era morta da molto tem­po. Marion-A era stata rimodellata per assomigliarle. Ma non era Katy e non era una donna: era soltanto una macchina.

Soltanto una macchina?

A dispetto di tutti i suoi sforzi, Markham si trovava punto e daccapo.

Katy era stata concepita e messa al mondo. Marion-A era stata costruita. Katy era stata educata e istruita, Marion-A era stata programmata. E la programmazio­ne era complessa, raffinata e, soprattutto, adattabile. Ma adattabile in che senso? Questo suggeriva un’ulteriore domanda: poteva Marion-A essere programmata per vivere?