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Ecco il problema base, complicato dal fatto che la vita non poteva essere definita: poteva solo essere ri­costruita.

Marion-A possedeva tutti i dati che le occorrevano per compiere con efficienza le funzioni per le quali era designata. Ma la programmazione non terminava quando il suo cervello veniva collaudato al diparti­mento di prova dell’impianto per la riproduzione de­gli androidi. Perché Marion-A era fatta in modo tale che il suo programma base poteva venire ampliato o modificato dall’esperienza. In teoria, dunque, sarebbe stata capace di reazioni non anticipate dai suoi pro­gettatori, a meno che questi non le avessero inserito un circuito di inibizioni per essere certi che, nonostan­te la presenza di un qualsiasi stimolo, la sua condotta si sarebbe accordata alle limitazioni imposte dalla pro­grammazione originale.

Ma, nelle creature viventi, le inibizioni possono ve­nire rimosse. E se ne possono creare di nuove. Markham si chiedeva se sarebbe stato possibile distruggere qual­cuna delle inibizioni di Marion-A, e in caso affermati­vo, se sarebbe stato possibile anche crearne di nuove.

E all’improvviso capì che stava per accingersi a una impresa, una specie di esperimento. Questo non l’a­vrebbe condotto necessariamente a scoprire se gli an­droidi potessero essere considerati vivi. Ma se non al­tro il risultato avrebbe fornito qualche indicazione su ciò che lui e il resto dell’umanità si trovavano a fron­teggiare.

Marion-A era programmata per servirlo, ma solo fi­no a che lui si fosse conformato ai canoni accettati di condotta. Il che era soltanto un altro modo di dire che l’androide era programmata prima di tutto negli interessi della Repubblica, e in secondo luogo in quel­li di Markham.

Ma se, per esempio, l’ordine delle due lealtà poteva essere sovvertito? Un pensiero affascinante e fantasti­co, questo.

A mano a mano che i giorni passavano, Markham si dedicava sempre più a Marion-A. Dapprima decise di esplorare i limiti della conoscenza dell’androide, e ri­mase ammirato, se non addirittura umiliato, da quel­lo che trovò. Scoprì che, per quanto concerneva i fatti, Marion-A era un’enciclopedia ambulante. Però, nel campo delle possibilità e delle implicazioni, in quel mondo insostanziale di ombre e di simboli, Marion-A non raggiungeva nemmeno l’intuizione, la fantasia, l’intelligenza di un bambino medio.

Sapeva tutto sulla velocità della luce, sulla storia universale, sull’evoluzione della vita, sulle onde meccaniche e via dicendo. Ma sebbene sapesse che una ro­sa, o un brano di musica, o un tramonto, potessero es­sere belli per la vista umana, non capiva perché lo fossero, né aveva alcuna nozione sulla natura della bellezza, o della felicità, o dell’amore.

Markham non seguì un piano preordinato nell’eseguire le sue ricerche e i conseguenti attacchi circa le attitudini mentali di Marion-A. Senza nemmeno ren­dersene conto, partì in vantaggio proprio perché ope­rò affidandosi all’istinto. La sua conversazione passava con una sola frase dal freddo ragionamento alla con­siderazione romantica dell’amore, dalla cibernetica al­la religione, all’improvvisazione di un pensiero spon­taneo.

Giocò a scacchi con Marion-A, le parlò dei suoi bam­bini e di Katy, e della vita nel ventesimo secolo. Le fe­ce ascoltale brani di musica, le chiese perché pensava che il tal pezzo lo rendesse felice o triste, o gli desse una soddisfazione intellettuale. Cercò di farle apprez­zare la tragedia di Amleto,il mistero di Monna Lisa, la grandezza della Toccata e Fuga in re, i dipinti di Blake, la magniloquenza di Marlowe, le melodie di Chaikovsky.

E giorno dopo giorno, Marion-A diventava più con­fusa. Il suo programma non era in grado di affrontare un simile attacco concentrato. I sintomi dapprima fu­rono vaghi, quasi insignificanti. Marion-A cominciò a dimenticarsi alcune cose, soprattutto cose che le riu­scivano difficili, cose che non erano spiegabili in ter­mini razionali. Cominciò a fare errori. Non era più così monotonamente efficiente. E a volte, quando Mar­kham la punzecchiava facendole notare gli sbagli com­messi, mostrava sintomi che, nell’essere umano, avreb­bero potuto essere interpretati come umiliazione.

Era stata programmata per accettare la propria pro­grammazione senza discutere. Ma senza darle tregua, Markham la indusse a usare su tutto le proprie facoltà critiche... compreso su se stessa e sulla parte che rap­presentavano gli androidi nella società.

Marion non era stanca, perché la stanchezza non era possibile agli androidi. Ma in un certo senso i suoi movimenti sembravano più lenti, meno sicuri. Non era infelice, perché gli androidi non erano program­mati per la felicità o per l’infelicità, ma c’erano mo­menti in cui pregava di essere lasciata sola, o chiede­va il permesso di usare l’eliauto per un giro senza me­ta, o se ne andava a zonzo per le strade di Londra sen­za alcun motivo apparente.

Con distacco freddo, da clinico, Markham notava tutti questi sintomi e non mancava di far sapere a Marion-A che si era accorto del cambiamento avvenuto in lei. E in tutto questo non faceva che ripetersi d’es­sere spinto da semplice curiosità.

Durante i giorni che seguirono il banchetto del Pre­sidente Bertrand a Buckingham Palace, Markham, ol­tre a dedicare gran parte del suo tempo ai tentativi sperimentali per modificare la programmazione di Marion-A, riuscì anche a rivedere Vivain, di solito in ap­puntamenti combinati in grande segretezza a qualche distanza dalla City.

Inevitabilmente, la loro relazione metteva radici. Era stata generata dalla curiosità, mantenuta viva dall’at­trazione fisica. Adesso c’era qualcosa di più. Per Vi­vain, se non altro, anche se lei non si curava di am­metterlo. Il fascino di Markham aumentava ai suoi oc­chi anche se, secondo tutte le leggi, avrebbe dovuto invece svanire. La sua necessità di stare con lui si fa­ceva sempre più intensa, e per motivi di autentico in­teresse morale...

A parte Vivain e qualche occasionale incontro con Algis Norvens, gli unici veri contatti sociali di Mar­kham erano con i vicini di Knightsbridge. Dal suo punto di vista, il primo incontro con Paul Malloris e Shawna Vandellay, la coppia che occupava l’apparta­mento sotto il suo, non era stato un gran successo. Ma dopo aver ricambiato la loro ospitalità ed essere tor­nato in visita un paio di volte a casa loro, cominciò a trovarli entrambi molto simpatici.

Dato che Paul e Shawna avevano conversato con lui dopo avergli fatto un’iniezione di Oblivina, della qua­le lui non si ricordava affatto, e si erano convinti che le simpatie di Markham stavano più dalla parte dei Fuggiaschi che della società, non sentivano più la ne­cessità di fingersi vacui e sciocchi di fronte a lui.

A mano a mano che l’amicizia si consolidava, Paul abbandonò lentamente il suo atteggiamento da poeta apocalittico e confidò a Markham che i suoi veri in­teressi riguardavano la storia della psicologia. Passa­rono insieme lunghe serate; Paul esplorava sistemati­camente gli atteggiamenti ventesimo secolo di Mar­kham il quale, dal canto suo, faceva l’inverso. Shawna portava la giusta nota di gaiezza nella conversazione quando questa si faceva troppo seria o troppo peri­colosa.

Arrivò il momento tuttavia, in cui Paul sentì di po­tersi fidare sufficientemente di Markham per confidar­gli l’episodio dell’Oblivina. Dapprima, Markham rifiu­tò di crederci, convinto di essere l’oggetto di qualche complesso scherzo del ventiduesimo secolo. Ma quando Shawna glielo confermò, guardandolo con i grandi oc­chi seri in cui si leggeva parecchia ansia, si convinse che era tutto vero.

«Faresti meglio a riferirmi esattamente tutto quel­lo che ci siamo detti mentre ero sotto l’effetto di quel­la maledetta Oblivina» disse allora, guardando Paul. «Poi vedrò se sarà il caso di gonfiarti la testa di pugni.»