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«Non uccideremo gli androidi, John. Ci limiteremo a farli a pezzi.»

«In ogni caso, il risultato sarà il medesimo» disse Markham con un lieve sorriso. «Ma ti confesso che, per il rispetto di me stesso, preferisco il concetto di uccidere.»

11

Il mattino seguente, dopo una notte insonne, Markham prese una decisione riguardo a Marion-A. L’istinto gli diceva che il tempo stringeva, che presto si sarebbe tro­vato esposto alle attenzioni dello Psicoprop e di Solomon senza poter più far niente. L’alternativa era di trasformarsi volontariamente in Fuggiasco, per dimi­nuire il rischio di essere colto di sorpresa.

Ma qualunque cosa accadesse, l’esperimento con Marion-A era destinato a rimanere incompleto, a meno che il leggero mutamento vitale non avesse già comin­ciato a manifestarsi. Per ora si proponeva di scoprire questo.

In tutti i casi, non poteva più correre il rischio di lasciarsi spiare, sebbene non avesse potuto capire a che punto Marion-A fosse programmata per lo spionaggio. Forse era solo una spia passiva. Forse Solomon, o chiunque altro fosse il responsabile del programma base degli androidi, riteneva che non fosse un bene permettere agli androidi di mostrarsi troppo indaga­tori. Ma, qualunque fosse il rischio, Markham non poteva rischiare oltre.

Durante un giro fatto nella City, aveva acquistato, senza sapere perché, una moderna pistola automatica e cento caricatori. Il modello poteva far pensare a una normale pistola del ventesimo secolo, ma era più leg­gero e aveva un’impugnatura piccolissima. Markham l’aveva provata e l’aveva trovata un’arma ottima.

Dopo colazione, si mise in tasca la pistola e un paio di caricatori. Poi consultò una carta della Costa Orien­tale e disse a Marion-A di preparare qualcosa da man­giare per un pic-nic e di mettere tutto nell’eliauto.

Mentre guardava la carta notò all’improvviso il pic­colo villaggio dove lui e Katy avevano trascorso la lu­na di miele. Tanto tempo prima: in un certo senso in un’altra dimensione di spazio e di tempo...

Con decisione, respinse i ricordi che gli si affollava­no alla mente. Non era il momento di diventare sen­timentale.

Sapeva che il villaggio era al centro di una striscia di costa deserta, e quindi era ottimale per gli scopi che si proponeva.

«L’eliauto è pronto, John.» Marion-A indossava l’abito verde bottiglia. Markham alzò gli occhi dalla carta e la guardò con involontaria approvazione. Non­ché disapprovazione. Sebbene androide, Marion-A po­teva sembrare, in certe occasioni, stranamente umana... ora per esempio.

«Puoi guidare tu» disse Markham, «mentre io mi riposo. Non c’è bisogno di affrettarsi. Non voglio arri­vare prima dell’ora di colazione.»

Il passaggio di centocinquant’anni aveva mutato la nebbia di Londra sotto un solo aspetto: adesso era pulita e non sapeva di fumo. Marion-A portò l’eliauto a duecento metri dal suolo, e appena al di sopra del mare di vapori che stava sospeso sopra la città in gros­se onde, accelerò.

Raggiunsero la costa, e la seguirono finché Markham non fu sicuro che erano proprio sulla baia dove lui e Katy andavano a fare i bagni. L’erosione aveva corro­so a fondo le rocce friabili, ma la baia presentava an­cora il medesimo contorno, aveva sempre quell’aspet­to intimo e deserto che era stata la sua principale at­trattiva tanti e tanti decenni prima. Markham riuscì perfino a distinguere, quattro o cinquecento metri più a nord, le rovine della casetta dove avevano soggior­nato. Un mucchio di macerie, ormai frequentato solo dai gabbiani e dai fantasmi.

«C’è una piccola casa in rovina» disse a Marion-A. «La vedi?»

«Sì, John.»

«Mi piacerebbe planare laggiù, per fare colazione... è il posto dove mia moglie e io abbiamo passato la lu­na di miele.»

«Cos’è la luna di miele?»

«La vacanza che due persone si prendono appena sposati.»

Marion-A atterrò con l’eliauto a pochi metri dalla villetta in rovina. Mentre lei scaricava le provviste per lo spuntino e preparava il piccolo fornello portatile, Markham esplorò le macerie.

Non restava più traccia del giardino di un tempo, né del vialetto che portava alla porta d’ingresso. Ispe­zionando le pareti della casa che ancora restavano in piedi, Markham si convinse che al prossimo fortunale sarebbero crollate definitivamente. Allora non sareb­be rimasto più niente. Solo poche pietre semisepolte...

Si accorse che Marion-A gli stava dicendo qualcosa.

«La colazione è pronta, John. C’è un po’ di zuppa calda, se senti freddo.»

«Grazie, vengo subito.»

Comprendendo che in quel momento lui non desi­derava la sua vicinanza, l’androide tornò presso l’eliauto. Lui la seguì con lo sguardo chiedendosi quasi con distacco che cosa riservavano a entrambi le pros­sime ore. Poi si permise di rientrare nel proprio sogno per qualche altro istante prezioso. Alla fine, si rese conto di essere tutto gelato: non fisicamente, ma per un gelo interno che sembrava intorpidirgli i sensi e i pensieri.

Mangiò in silenzio, quasi dimentico della presenza di Marion-A. Ma la pistola automatica che aveva in tasca faceva sentire sempre di più il proprio peso, pre­mendogli inesorabile contro il fianco.

In silenzio, Marion-A gli versò il caffè e gli offrì una sigaretta, che lui accese e aspirò nervosamente, pro­mettendo a se stesso che quando la sigaretta fosse fi­nita avrebbe fatto quello che aveva in mente.

Poco dopo, gettò la sigaretta in un ciuffo d’erba, la guardò fumare fino a spegnersi, poi si voltò verso Marion-A.

«Tu sei programmata con due tipi di lealtà, Ma­rion. Verso la Repubblica, il che significa verso l’am­ministrazione androide, e verso di me, Quale delle due ha la precedenza?»

Marion-A esitò leggermente. «Se bisogna definirla lealtà, John, la mia lealtà verso la Repubblica ha la precedenza» rispose poi.

«So che è una domanda inutile» disse lui, «ma ti secca essere il mio A.P.?»

«È una domanda inutile» disse lei.

«Bene. Allora non ti disturberà molto avere un nuovo padrone.»

«Non capisco.»

«È semplice. Non mi occorri più. Sei solo un pro­blema non necessario. Inoltre, sei pericolosa.»

«Perché dici questo?»

Markham fece scivolare una mano in tasca, cercan­do di attingere un po’ di durezza dal metallo freddo della pistola.

«Perché ho preso la mia decisione, Marion» disse. «Non mi piace vivere in una società dominata dagli androidi. Ragione per cui, sono maturo per l’Analisi. E poiché non mi va l’idea di perdere la mia attuale personalità, vado a raggiungere i Fuggiaschi. Voglio vedere se è possibile fare qualcosa per frantumare il potere degli androidi. Perciò vedi, Marion, noi siamo nemici.»

«Non credo che noi si possa essere nemici, John.»

«Tu sei programmata per servire prima la Repub­blica e poi me. Quindi dovrai fare allo Psicoprop rap­porto sul mio atteggiamento anti-sociale. Dopo di che dovrò subire il lavaggio del cervello... ammesso che possano prendermi.»

«Ammetti che sia possibile per me... lavare la mia programmazione originale, John» gli sorrideva, ma era un sorriso curioso. Lui non l’aveva mai vista sorri­dere così.

«Questo è impossibile» rispose. «Il programma è fissato.»

«Davvero?» disse lei con violenza sorprendente. «Ero programmata per accettare il significato della musica o della poesia per gli esseri umani, ma non ero programmata per comprenderne io stessa il significato.»

Lui rise. «E lo comprendi? Pensi davvero di rice­vere sensazioni dalla musica o dalla poesia, o da qual­siasi altra arte umana?»

«So soltanto» disse lei, pronunciando le parole molto lentamente «che a volte questo mi colpisce in modo che non capisco. Tu mi hai usato per un espe­rimento, John. Sono convinta che il risultato sia mol­to interessante.»

«Il risultato è significativo» disse lui, «perché mi ha convinto che gli androidi hanno in sé il potenziale della vita. L’errore che l’umanità ha fatto è quello di presumere che tutta la vita debba essere organica. Non pensavamo seriamente che le macchine potessero svi­lupparsi a un punto tale di complessità che la vita si introducesse in loro all’insaputa di tutti, aspettando pazientemente di esprimersi in termini di evoluzione, di potere e di personalità... È uno scherzo raffinato che la natura ha giocato agli uomini, Marion. Perché gli umani si sono permessi di non fare i conti con l’infi­nito senso dell’umorismo divino.»