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Poi scorse alcuni oggetti sul carrello della colazio­ne: il suo portafogli, l’anello delle chiavi, un accen­dino, e un piccolo elefante portafortuna che gli aveva dato Katy.

Improvvisamente, le sue gambe cedettero: poi si rese conto che Marion-A lo stava adagiando sul divano.

«Maledizione!» imprecò irritato. «Sono debole co­me un pulcino. Come... come sono arrivati, fin qui questi oggetti?»

«Ho pensato che vi facesse piacere averli, signore, per motivi sentimentali. Vi chiedo scusa. Se preferite non...»

«No, hai fatto benissimo.» Guardò l’androide e sorrise. «Solo che non me l’aspettavo... Mi dai il por­tafogli, per favore?»

Cercò per vedere se la fotografia di Katy c’era anco­ra. C’era. Un po’ sciupata ma non sbiadita. La con­templò intensamente per qualche minuto, poi la por­se a Marion-A. «Vai a guardarti allo specchio.»

Lei prese la fotografia, la osservò, poi andò ad esa­minare i propri lineamenti. «La rassomiglianza vale poco» dichiarò. «Vostra moglie era bella.»

«Come fai a sapere cos’è la bellezza?» disse lui aspro. «No, non dirmelo... sei programmata col senso estetico incluso.» E sbottò in una risata amara.

«Forse» disse Marion-A «il mio aspetto vi addolora. Posso essere rimodellata, se volete.»

«Non è necessario. Devo imparare a prendere il mondo come mi si presenta. Devo imparare anche a eliminare l’autocommiserazione.» Rimise via la foto. «Bene, cosa abbiamo per colazione? Uova col prosciut­to, nientemeno! Il mondo è ancora civile.»

Sapeva che la sua voce era forzatamente allegra, sapeva che stava solo cercando di dimostrare a se stesso, senza riuscirci, di essere in grado di prendere il mon­do come veniva, ma non gliene importava. Che scopo c’era, si chiese, a inibire le proprie reazioni a beneficio di un androide?

Mentre lui mangiava, Marion-A sedeva immobile sul suo sgabello. Markham tentava di ignorarne la presen­za, ma la cosa strana era che lei una presenza l’aveva. D’accordo, era soltanto una macchina complessa, ma l’umanizzazione esteriore le attribuiva l’illusione di una personalità. Markham non si sarebbe sentito a di­sagio dovendo mangiare di fronte a un registratore, o a una macchina fotografica, o a un cervello elettroni­co. Ma farlo in presenza di Marion-A lo sconcertava. Lei era la somma di tutti quegli oggetti, ma anche qualcosa di più. L’intero era più grande delle parti... Non proprio una macchina, non proprio un essere umano. A titolo di curiosità Markham si chiese se avrebbe provato le medesime impressioni in presenza di un semplice robot.

Dopo un po’, provò il bisogno di fare conversazio­ne. «Verrà un giorno» disse, «in cui gli androidi sa­ranno in grado di mangiare.»

Marion-A sorrise. «Possiamo già, signore... se è neces­sario. La maggior parte degli androidi prodotti duran­te l’ultimo decennio ha uno stomaco artificiale. Dato che fra gli esseri umani mangiare è una funzione non soltanto necessaria ma anche sociale, è sembrato op­portuno creare androidi capaci di prendere posto a tavola qualora la situazione lo richieda... Volete che vi tenga compagnia, signore?»

Markham scosse violentemente la testa. «E cosa ne fate?» chiese.

«Di che cosa, signore?»

«Del cibo.»

«Viene ricevuto da un sacchetto di plastica che può essere rimosso al momento opportuno.»

«Mio Dio!» esclamò lui. «Immagino che il pros­simo passo sarà quello della procreazione.»

«Non direi, signore. Per il materiale non biologi­co, la riproduzione fatta in fabbrica è più pratica e più efficiente.»

Lui si mise a ridere. «Il tuo senso dell’umorismo è davvero sottile.»

Marion-A sorrise di nuovo. «Questa volta non stavo scherzando.»

Dopo colazione, Marion-A lo condusse sul terrazzo e sistemò al sole una poltrona di canapa, in un punto riparato dal vento. Markham si era aspettato di sco­prire che il Risanatorio di Londra-Nord si trovava al­la periferia della città. Ma tutt’attorno, fin dove l’oc­chio poteva arrivare, si vedeva soltanto campagna on­dulata e ricca di boschi e fattorie.

«Dove siamo?» chiese. «Credevo che questo po­sto si trovasse nei pressi della City.»

«Londra è a circa settanta chilometri da qui» spie­gò Marion-A. «La città più vicina è Colchester.»

«Perché, allora, si chiama Risanatorio di Londra-Nord?»

«Perché è nella Repubblica di Londra, signore.»

«Già, avevi detto qualcosa del genere ieri... Voglio uscire da questo posto. Voglio vedere cosa succede nel mondo. Sai, non ho nemmeno idea di che stagione sia. Il tempo è così splendido che potremmo essere in pri­mavera, o all’inizio dell’autunno.»

«Oggi è il tre di settembre, signore.»

Markham sospirò. «Il mese migliore dell’anno. Ri­cordo...» s’interruppe bruscamente. «Oh, al diavolo» guardò Marion-A e sorrise. «Voglio che tu mi faccia un favore. Smettila di chiamarmi signore. Mi sembra di essere un direttore d’azienda.»

«Sì, signor Markham.»

«Peggio che mai... Chiamami semplicemente John.»

Marion-A esitò. «È insolito per un androide persona­le prendersi tanta confidenza.»

«È anche insolito che un uomo resusciti dopo un secolo e mezzo passato in frigorifero. Mi farebbe pia­cere che tu mi chiamassi John.»

«Sarebbe consigliabile, allora, limitare questa con­fidenza alla conversazione privata. Ci sono formalità e convenzioni ben radicate tra esseri umani e androidi.»

Lui sbadigliò. «Probabilmente sono convenzioni inutili. Vorrei non sentirmi così stanco. Maledizione! Eppure ho appena fatto un buon sonno.»

«L’animazione sospesa induce di solito stanchezza e pigrizia. Ecco perché è importante per voi passare al­cuni giorni in convalescenza.»

«Marion.»

«Sì, signore?»

«No... non sì signore.»

Lei sorrise. «Sì... John.»

«L’illusione della tua personalità e intelligenza è affascinante. Per quanto tempo sarai la mia androide personale?»

«Fino a che richiederete un modello diverso, si­gnore.»

«Bene. Allora posso dedicarmi alla tua educazione. Dovrebbe essere interessante.»

«Ho già ricevuto un programma base in scienze e in materie sociali.»

«Non è il genere di educazione al quale mi riferivo.»

Lei rimase silenziosa, e Markham disse irritato: «Se tu fossi un essere umano mi chiederesti una defini­zione.»

«Ti piacerebbe che lo facessi?»

«Sì.»

«Allora definiscimi il tipo di educazione al quale ti riferisci, John.»

«Ora va meglio.» Markham sbadigliò di nuovo e fissò pigramente l’orizzonte. «Indipendenza intellet­tuale e curiosità. Senza queste cose, sei soltanto una scatola di congegni elettronici. Con queste due quali­tà, invece, puoi diventare un individuo autocosciente.»

«Autocoscienza» ripeté Marion-A. «L’autocoscien­za è una astrazione metafisica che posso comprendere ma non apprezzare.»

«L’autocoscienza» disse lui «è un dono di Dio. È anche una astrazione metafisica, valida tuttavia. Dio l’ha data agli uomini. Ora il problema è questo: pos­sono gli uomini darla alle macchine?»

Marion-A gli sistemò un cuscino dietro la testa e una leggera coperta sulle ginocchia. «Credo che a questa domanda possa rispondere solo un essere umano.»

Markham la guardò e sorrise.

«Fino a che gli androidi non cominceranno a chie­dersi la stessa cosa... Tu sei Galatea fatta in serie, e io sono un Pigmalione fuori moda. Chissà quale sarà il risultato?»

«Temo di non conoscere questi termini di paragone.»

Lui rise. «Neanche Pigmalione li conosceva...» Un attimo dopo aveva gli occhi chiusi e dormiva profon­damente.

Dormire e mangiare, passeggiare e chiacchierare. Nei giorni che seguirono questo fu lo schema di vita di Markham. La stanchezza dovuta all’animazione sospe­sa era più grave della stanchezza fisica. I postumi con­sistevano in una breve ma profonda letargia dello spirito.