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Non si sentiva pronto. E sentiva che il mondo non era pronto per quell’impresa. Sembrava tutto così bizzarramente improvvisato, nonostante le eternità di tempo che avevano dedicato a quel lavoro, tutti, compreso lui. Non era ancora stata fatta nemmeno la scelta definitiva dei membri dell’equipaggio. Roger sarebbe andato: era la ragion d’essere del progetto, ovviamente. Sarebbe andato anche Kayman: questo era già stato stabilito. Ma i due piloti erano ancora provvisori. Kayman li aveva conosciuti entrambi e li aveva trovati simpatici. Erano tra i migliori della NASA, e uno aveva partecipato insieme a Roger ad una missione con una navetta spaziale, otto anni prima. Ma c’erano altri quindici che figuravano nell’elenco dei candidati… Kayman non conosceva neppure tutti i nomi: sapeva solo che erano parecchi. Vern Scanyon e il direttore generale della NASA erano andati in volo a discuterne con il presidente in persona, pregandolo di confermare le loro scelte; ma Dash, per motivi che lui solo conosceva, si era riservato il diritto alla decisione finale, e non aveva ancora fatto conoscere le sue intenzioni.

L’unica cosa che sembrava perfettamente pronta all’avventura era proprio l’anello della catena che un tempo era parso più debole: lo stesso Roger.

L’addestramento era andato magnificamente. Roger ormai si muoveva alla perfezione per tutto il palazzo del progetto: andava dalla stanza che considerava ancora «casa sua» alla vasca marziana, agli impianti per le prove, e dovunque volesse. Tutti i membri del progetto si erano abituati a vedere quell’essere alto, dalle ali nere, che procedeva a grandi balzi per i corridoi; gli enormi occhi sfaccettati riconoscevano un viso noto e la voce inespressiva lanciava un gaio saluto. Durante l’ultima settimana, Roger era stato requisito in esclusiva da Kathleen Doughty. Il suo sensorio appariva perfettamente controllato: era venuto il momento di imparare a sfruttare tutte le risorse della muscolatura. Perciò Kathleen aveva fatto venire un cieco, un ballerino classico e un ex paraplegico, e via via che Roger ampliava i propri orizzonti costoro cominciarono a educarlo. Il ballerino classico non era più un divo, ma lo era stato, e da ragazzino aveva studiato con Nureyev e Dolin. Il cieco non era più cieco. Non aveva occhi, ma il suo apparato ottico era stato sostituito da sensori molto simili a quelli di Roger; e insieme i due si scambiavano giudizi sulle sfumature di colore più sottili e sui metodi per manipolare i parametri della loro vista. Il paraplegico, che ora si muoveva grazie ad arti motorizzati antesignani di quelli di Roger, aveva impiegato un anno per imparare ad usarli, e lui e Roger prendevano insieme lezioni di ballo.

Non erano sempre insieme fisicamente. L’ex paraplegico, che si chiamava Alfred, era tuttora molto più umano di Roger Torraway, e tra le varie caratteristiche umane presentava anche l’esigenza di respirare aria. Quando Kayman e Brad entrarono nella sala comandi della vasca marziana, Alfred eseguiva scambietti al di qua della grande vetrata doppia e Roger, entro la vasca quasi completamente priva d’aria, ripeteva gli stessi movimenti. Kathleen Doughty contava le cadenze, e gli altoparlanti trasmettevano il valzer in la maggiore di Les Sylphides. Vern Scanyon stava seduto accanto a una parete, a cavalcioni su una sedia, con le braccia conserte sulla spalliera e il mento appoggiato sulle mani. Brad lo raggiunse subito, e i due cominciarono a parlare sottovoce.

Don Kayman trovò un posto a sedere accanto alla porta. Il paraplegico e il mostro eseguivano salti incredibilmente rapidi, agitando i piedi con movimenti fulminei. Non era la musica adatta per gli scambietti, pensò Kayman, ma nessuno dei due sembrava preoccuparsene. Il ballerino classico li osservava con un’espressione indecifrabile. Probabilmente vorrebbe essere un cyborg, pensò Kayman. Con simili muscoli, potrebbe dominare i palcoscenici di tutto il paese.

Era un’idea abbastanza divertente, ma impiegabilmente Kayman si sentiva a disagio. Poi ricordò: stava seduto esattamente in quel punto, quando Willy Hartnett gli era morto davanti agli occhi.

Sembrava fosse accaduto tanto tempo prima. Era trascorsa soltanto una settimana da quando Brenda Hartnett era venuta con i figli a salutare lui e suor Clotilda: ma già era quasi dileguata dalla loro mente. Il mostro chiamato Roger era il divo dello spettacolo, adesso. La morte di un altro mostro in quel luogo, avvenuta così poco tempo prima, apparteneva soltanto alla storia.

Kayman prese il rosario e cominciò a recitare le preghiere. Mentre una parte di lui ripeteva le Ave Maria, un’altra era conscia del contatto piacevole e caldo dei grani d’avorio e del netto contrasto offerto dai grani di cristallo. Aveva deciso di portare con sé su Marte il dono del Santo Padre. Sarebbe stato un peccato se fosse andato perduto… beh, lo sarebbe stato anche se fosse andato perduto lui, pensò. Non poteva calcolare i rischi in quel modo: perciò decise di fare ciò che evidentemente Sua Santità desiderava, e di portare quel dono nel più lungo viaggio che avesse mai compiuto.

Si accorse che qualcuno gli si era fermato accanto. — Buongiorno, padre Kayman.

— Salve, Sulie. — La sbirciò incuriosito. Cos’aveva di strano quella ragazza? Sembrava che i capelli neri avessero le radici dorate, ma la cosa non era molto sorprendente; anche un prete sapeva che le donne scelgono secondo il capriccio il colore della loro chioma. Del resto, lo facevano anche alcuni preti.

— Come va? — domandò Sulie.

— Direi perfettamente. Guardi come saltano! Roger mi sembra proprio a punto e, Deo volente, credo che riusciremo a farcela per la data del lancio.

— L’invidio, — disse l’infermiera, guardando l’interno della vasca marziana. Kayman si girò a fissarla, sbalordito. Nella voce di lei c’era più calore di quanto lo giustificasse un’osservazione casuale. — Dico sul serio, Don, — continuò Sulie. — La ragione principale per cui entrai nel programma spaziale era che volevo andare lassù anch’io. Forse ci sarei riuscita se…

S’interruppe e scrollò le spalle. — Beh, almeno aiuto lei e Roger, — riprese. — Non dicevano, una volta, che le donne servivano appunto a questo? Ad aiutare. Non è poi tanto male, comunque, quando si tratta di collaborare ad un’impresa importante come questa.

— Non mi sembra del tutto convinta, — osservò Kayman.

Sulie sorrise ironicamente e tornò a guardare la vasca.

La musica era cessata. Kathleen Doughty si tolse la sigaretta dalle labbra, ne accese un’altra e disse: — Okay, Roger, Alfred. Prendetevi dieci minuti di riposo. Siete andati benissimo.

Dentro la vasca, Roger sedette a gambe incrociate. Sembrava esattamente il Diavolo accovacciato sulla vetta nel classico cartone animato di Walt Disney, pensò Kayman: Una notte sul Monte Calvo.

— Cosa succede, Roger? — chiese Kathleen Doughty. — Non puoi certo esser stanco.

— Sono stanco di questa storia, — borbottò lui. — Non so perché debba essere costretto a questi balletti. Willy non lo faceva.

— Willy è morto, — scattò Kathleen.

Vi fu un silenzio. Roger volse la testa verso di lei, sbirciando oltre il vetro con i grandi occhi compositi. Poi ringhiò: — Non certo per la mancanza di scambietti.

— E tu come lo sai? Oh, — ammise la dottoressa, burberamente, — suppongo che potresti sopravvivere senza una parte di questo addestramento. Ma ti aiuterà a destreggiarti meglio. Non si tratta semplicemente d’imparare a muoverti. Devi anche imparare a non distruggere il tuo ambiente. Hai un’idea della tua forza attuale?

All’interno della vasca Roger esitò, poi scosse il capo. — Non mi sento particolarmente forte, — disse la voce incolore.

— Sei in grado di sfondare un muro con un pugno, Roger. Domandalo ad Alfred. Che tempo fa lei sul miglio, Alfred?

L’ex paraplegico intrecciò le mani sul ventre grasso e sogghignò. Aveva cinquantotto anni e non era mai stato un atleta, neppure prima che la myasthenia gravis distruggesse i suoi arti naturali. — Un minuto e quarantasette, — disse, orgoglioso.