Per il resto, c'è la Lozione Prebarba Vecchio Bucaniere, che raddrizza i peli della barba prima della rasatura e il Fissatore Vecchio Bucaniere, che tiene giù i capelli dopo che sono stati pettinati. C'è anche la Delizia del Vecchio Bucaniere, un balsamo per bagno con aggiunta di vitamina C. (Una volta, Herb si è preso la briga di guardare sul dizionario la definizione di bucaniere: una specie di scorridore dei mari, e non c'è da meravigliarsi che dovessero mettersi tutto quel profumo, ma comunque non era il genere di scherzo che faceva ridere Smitty).
Personalmente, a Herb dispiace un po' che Smitty sia così attaccato alla serie Vecchio Bucaniere, perché sul mercato c'è roba migliore. Guancia Liscia, per esempio. Herb deve quasi tutta la sua posizione nell'agenzia pubblicitaria all'aver creato lo slogan per il Guancia Liscia: l'immagine di un amatore latino-americano (accuratamente continentale, perfetto per chi aveva gusti transatlantici, che strofinava la guancia contro quella di una femmina estatica e molto mammifera, con sotto la scritta: Vuoi una guancia liscia?
Bene! dice Herb, quasi a voce alta. Un tubetto di unguento per le emorroidi. Tranquillanti, naturalmente, aspirine e una boccetta di capsule mostruose, metà gialle metà azzurre. Prenderne una tre volte al giorno. Acromicina. Herb sarebbe disposto a scommetterci. Senza toccare niente, si sporge curioso in avanti per guardare l'etichetta. La data gli dice che è stata acquistata tre mesi fa. Herb medita, era all'incirca il mese in cui Smitty aveva smesso di bere per un po'.
Prostata, eh?
Burro di cacao, per le labbra screpolate. Smalto incolore per le unghie. Un bastoncino per ritocco. Che diavolo è un bastoncino per ritocco, n. 203 Bruno? Si piega più vicino. La dicitura afferma: Per ritocchi temporanei tra le applicazioni della tintura. Il tempo cammina, Smitty. O, meglio ancora: il tempo ti piomba addosso, Smitty.
Charlie ricordava (ricordava, ricordava) una cantilena che aveva sentito all'asilo. L'aveva sentita cantare dai bambini più grandi, i bambini di seconda, dalle bambine che saltavano la corda:
Cantilenando in silenzio, si addormentò. Sognò Laura… si erano conosciuti da così poco tempo, ma sembrava da sempre; avevano già un linguaggio da innamorati, piccole definizioni e frasi che avevano significato soltanto per loro: È una cosa da uomini, Charlie. Lui poteva dire “È una cosa da donne, Laura” anche del suo acuto gridolino, quando la coccinella le si era impigliata nei capelli d'albicocca, e l'aveva fatta ridere e ridere.
Nello svegliarsi passò attraverso una strana zona della mente, giungendo a un punto di sensibilità in cui capiva chiaramente e freddamente che Laura era divisa da lui dalle barriere impenetrabili dello spazio e del tempo, ma in cui, contemporaneamente, sua madre sedeva ai piedi del suo letto. E mentre passava attraverso questa zona, divenne sempre più chiaro, per lui, che era a Ledom, così non avrebbe avuto nessun disorientamento al risveglio; eppure, il senso della presenza di sua madre diventò più forte, così quando aprì gli occhi e vide che lei non c'era, fu come se l'avesse vista — realmente lei non la sua immagine — scomparire con un pop. Furibondo e offeso, si svegliò urlando, chiamando sua madre…
Quando finalmente ebbe i piedi in basso e la testa in alto, si diresse verso la finestra, senza avvicinarsi troppo, e guardò fuori. Il tempo non era cambiato, e gli sembrò di aver dormito per tutto un giro dell'orologio, perché il cielo, sebbene fosse ancora coperto, era luminoso come lo era stato durante il tragitto dal Centro Scientifico. Era affamato; e ricordando le istruzioni andò al letto-scaffale su cui aveva dormito e tirò verso l'esterno la prima delle tre sbarre dorate.
Una sezione irregolare della parete (lì non c'era nulla di quadrato, di piatto, di verticale o di perfettamente liscio) scomparve sollevandosi e rientrando, come la saracinesca di certe vecchie scrivanie, e fu come se quella ridicola bocca cacciasse fuori una lingua molto ampia, perché dall'orifizio scivolò fuori una specie di tavola su cui erano posati una ciotola e un piatto. Nella ciotola c'era una specie di pappa di farina d'avena. Sul piatto c'era un mucchio di frutti dai colori esotici, disposti con un gusto squisito in modo da formare un quadro armonioso con le loro forme improbabili. C'erano banane e arance, e qualcosa che sembrava uva, ma gli altri frutti erano grandi e chiazzati di azzurro e di vermiglio e di verde iridescente, e di almeno sette varietà di rosso. Ciò che desiderava soprattutto al mondo, in questo mondo o in qualsiasi altro, era qualcosa di fresco da bere, ma non c'era nulla del genere. Sospirò e prese un globo color orchidea, lo fiutò — aveva un odore simile a quello del pane imburrato — e provò a morderlo. Poi emise un grugnito altissimo di sbalordimento e si girò attorno, cercando qualcosa con cui asciugarsi la faccia e il collo. Perché sebbene la buccia del frutto fosse, sotto le sue labbra, a temperatura ambiente, il succo, che usciva a pressione considerevole, era gelido.
Dovette servirsi della camicia bianca per asciugarsi; poi prese un altro frutto color orchidea e tentò di nuovo, con risultati soddisfacenti. Il succo limpido e freddo era privo di polpa e aveva un sapore di mela sfumato di cannella.
Poi guardò la pappa di farina. Non aveva mai amato molto i cereali cotti, ma l'aroma di quella pappa era appetitoso, sebbene non riuscisse a riconoscerlo. Accanto alla ciotola c'era un oggetto, una specie di posata. Assomigliava vagamente a un cucchiaio, ma in realtà consisteva di un manico che reggeva un cappio di filo sottile, azzurro vivo, simile a una minuscola racchetta da tennis, ma senza corde.
Perplesso, afferrò il manico e spinse il cappio nella pappa. Con sua grande sorpresa, la pappa si ammucchiò sopra il cappio, come se al di sotto ci fosse il solido incavo di un cucchiaio. Lo sollevò e vide che il cibo era ammucchiato allo stesso modo anche nella parete inferiore… neppure un po' di più: e non sgocciolava. Lo assaggiò, cautamente, e lo trovò così delizioso che non lo turbò neppure la consistenza gommosa dell'area invisibile nell'interno del cappio. La guardò, sì, e spinse un indice per provare (e quella zona invisibile resistette lievemente al dito), ma nonostante questo continuava a godersi, con tutte le ghiandole salivari, quel cibo saporito, dolce e carico di spezie, robusto e nutriente. Il sapore era assolutamente nuovo per lui, ma, mentre si ingozzava e raschiava il fondo vuoto della ciotola fino a storcere il filo azzurro si augurò ardentemente di poterne avere ancora, al più presto.
Soddisfatto, almeno fisicamente, sospirò e si alzò dal letto, mentre la tavola e il suo carico scivolavano silenziosamente nell'apertura che tornò ad essere, di colpo, parte della parete. «Servizio in camera» mormorò Charlie, scuotendo la testa con fare di approvazione.
Si accostò all'armadio che gli aveva mostrato Philos e sfiorò il ghirigoro nel disegno della parete. Lo sportello si dilatò. L'interno era illuminato dal solito chiarore argenteo opaco, privo di sorgente. Lanciando uno sguardo cauto agli orli dell'apertura ovale e irregolare, perché quella cosa poteva aprirsi e chiudersi con autentico entusiasmo, sbirciò nell'interno, sperando di rivedere i suoi bravi calzoni fabbricati negli Stati Uniti. Non c'erano.
C'era invece una fila di costruzioni — era l'unica parola adatta — di tessuti rigidi e flosci, inamidati, sottilissimi, opachi, in tutte le combinazioni di colore: rossi, azzurri, verdi, gialli, tessuti che sembravano contenere tutti i colori contemporaneamente, tessuti che potevano cogliere una sfumatura qui e una là dalle stoffe che erano lì intorno; e tessuti che non avevano colore, che smorzavano qualsiasi cosa su cui si posassero. Erano messi insieme in pannelli, tubi, pieghe, drappeggi, cuciture, ed erano tagli di sbieco, orlati di frange, ricamati, ricchi di applicazioni e di orlature.