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Fredric Brown

Vieni e impazzisci

1

Quel mattino l’aveva sentito svegliandosi. E ora, mentre stava guardando fuori dalla finestra della redazione, nella luce del primo pomeriggio che scendeva obliqua tra gli edifici formando un disegno di luci e ombre, lo sentiva con intensità anche maggiore. Presto, forse quel giorno stesso, sarebbe accaduto qualcosa d’importante. Non avrebbe saputo dire se piacevole o spiacevole… ma aveva oscuri sospetti. Giustificati. Infatti è raro che qualcosa di piacevole capiti inaspettatamente, mentre i guai piovono da tutte le direzioni nei modi più impensati.

— Salve, signor Vine — disse una voce. Si voltò lentamente, strappandosi alla sua contemplazione. Anche questo era strano, perché non aveva l’abitudine di muoversi adagio: ad un giovanotto piccolo e nervoso, con i riflessi scattanti di un gatto.

Ma quella volta qualcosa lo aveva costretto a voltarsi con lentezza. Era come se sapesse di contemplare quel chiaroscuro pomeridiano per l’ultima volta.

— Sì, Red.

— Sua grazia vuole vedervi — disse l’impiegato lentigginoso della redazione.

— Adesso?

— No. Quando vi fa comodo. Magari un giorno della settimana prossima. Se avete da fare, fissategli un appuntamento.

Lui premette il pugno contro il mento di Red, che barcollò, fingendosi terrorizzato.

Poi si alzò e si avvicinò all’apparecchio refrigerante. Premette il pulsante e l’acqua scese gorgogliando nel bicchiere di carta.

Harry Wheeler passava di lì. — Come va la vita, Napo? — domandò. — Che succede? Vai a prenderti una ramanzina?

— So come cavarmela, io.

Bevve, appallottolò il bicchiere e lo gettò nel cestino della carta straccia. Poi si diresse verso la porta con la scritta PRIVATO, ed entrò.

Walter J. Candler, il direttore del giornale, alzò la testa dalle carte che aveva davanti a sé sulla scrivania e disse affabilmente: — Sedete, Vine. Un attimo, e sono da voi. — Poi abbassò di nuovo lo sguardo.

Lui si accomodò sulla sedia di fronte a Candler, sfilò una sigaretta dal taschino della camicia e l’accese. Lanciò un’occhiata al retro del foglio che il capo stava leggendo, ma non c’era scritto niente.

Finalmente l’altro posò il foglio e lo guardò. — Vine, ho qualcosa di assurdo per voi. Siete in gamba, in cose del genere.

Lui sorrise, con aria perplessa. — Se questo è un complimento, grazie.

— Lo è senz’altro. Avete svolto servizi molto difficili per il nostro giornale. Ma questo è diverso. Finora non ho mai obbligato nessun reporter a fare qualcosa che non mi sentissi di fare io stesso. Io questo servizio non lo accetterei, così non ve lo impongo.

Candler raccolse il foglio che prima stava leggendo, poi lo posò di nuovo, senza nemmeno guardarlo. — Mai sentito parlare di Ellsworth Joyce Randolph?

— Il primario dell’ospedale psichiatrico? Sì, l’ho conosciuto. Per caso.

— Che impressione vi ha fatto?

Si rese conto che il direttore lo stava fissando attentamente. Quella non era una domanda superficiale. — In che senso? — disse, cercando di prendere tempo. — Volete sapere se è un tipo di buon cuore, se è un buon politicante, se tratta bene i pazienti… o che altro?

— Se vi sembra sano di mente.

Lui guardò Candler, e vide che non scherzava. La sua faccia era del tutto inespressiva.

Cominciò a ridere, poi si trattenne e si protese sopra la scrivania del direttore. — Ellsworth Joyce Randolph? — domandò. — State parlando di Ellsworth Joyce Randolph?

L’altro annuì. — Il dottor Randolph è stato qui stamattina e mi ha raccontato una strana storia. Non ha voluto che la pubblicassi. Mi ha pregato di farne prima controllare l’attendibilità dal nostro miglior reporter. Ha detto anche che se l’avessimo trovata credibile, avremmo potuto pubblicarla a caratteri cubitali, e in rosso per di più. — Candler sorrise con aria misteriosa e concluse: — Non ha tutti i torti.

Lui schiacciò il mozzicone della sigaretta ed osservò l’espressione del direttore. — Ma la storia è così assurda, che vi siete domandato se lo stesso Randolph non sia malato di mente.

— Proprio così.

— Perché si tratta di un servizio tanto difficile?

— Perché, secondo Randolph, il reporter dovrà compiere gli accertamenti nell’interno del manicomio.

— Travestito da infermiere o… da qualcos’altro?

— Da qualcos’altro.

— Oh!

Si alzò e si avvicinò alla finestra, voltando le spalle al direttore. Il sole era suppergiù nella medesima posizione, ma il gioco delle ombre nelle strade ora sembrava diverso. Ed anche il suo stato d’animo era diverso. Era quello che doveva capitare, l’aveva sentito. Si girò e disse: — No, porco Giuda! No.

Candler alzò impercettibilmente le spalle. — Non posso darvi torto. Non vi ho neppure chiesto di andarci. Al vostro posto, non ci andrei.

— Che cosa crede che stia accadendo nel suo manicomio, Ellsworth Joyce Randolph? Deve essere qualcosa di veramente assurdo, per farvi dubitare che abbia il cervello a posto.

— Non posso dirvelo, Vine. Gli ho promesso il segreto, sia che voi accettaste sia che rifiutaste l’incarico.

— Volete dire che se anche io accettassi… non saprei che cosa andrei a fare là dentro?

— Esatto. Altrimenti non sareste obiettivo. Potreste cercare qualcosa di preciso e credere di averlo trovato, anche se non ci fosse niente. Oppure potreste essere talmente prevenuto da rifiutare di riconoscerne l’evidenza.

Lui si staccò dalla finestra, si avvicinò alla scrivania e ci picchiò sopra un pugno.

— Al diavolo, Candler, perché proprio io? Lo sapete che cosa mi capitò tre anni fa!

— Certo. Un’amnesia.

— Un’amnesia! Proprio così. Ma non ho mai nascosto di non essere riuscito a superarla. Ho trent’anni, no? Ebbene, la mia memoria ne abbraccia solo tre. Sapete che effetto fa, sentirsi alle spalle un muro liscio?

«Oh, naturale… Io so benissimo che cosa sta dietro a quel muro, perché me lo dicono tutti. So di aver cominciato a lavorare qui come semplice impiegato dieci anni fa. Conosco la data e il luogo della mia nascita e so come ho perso entrambi i genitori e che faccia avevano, perché li ho visti in fotografia. So anche di non essere ammogliato e di non avere figli; tutti quelli che mi conoscevano me l’hanno confermato. Notate la finezza… tutti quelli che mi conoscevano, non tutti quelli che conoscevo! Io non conoscevo nessuno.

«Sì, mi sono sempre comportato bene. Uscito dall’ospedale (non ricordo neppure l’incidente che mi mandò a finire là!) potei tornare al mio lavoro, perché sapevo ancora scrivere articoli, anche se fui costretto a imparare di nuovo i nomi dei colleghi. Come se fossi un reporter appena assunto che entra per la prima volta nella redazione di un giornale, in una città straniera. E tutti erano maledettamente gentili con me.

Candler alzò una mano per fermare quel torrente di parole. — D’accordo, Napo — disse. — Non parliamone più. Non vedo proprio che cosa c’entri tutto questo con questa storia, ma avete detto di no e basta così. Non pensateci più.

Lui ormai si era calmato. — Non capite che cosa c’entri questo con la vostra storia? Mi chiedete, o meglio, ve lo concedo, mi suggerite di farmi dichiarare pazzo con tanto di certificato medico e di entrare in un ospedale psichiatrico in qualità di paziente. Quando… che fiducia può avere nella propria mente un individuo che non ricorda di essere andato a scuola, né quando ha conosciuto le persone con cui lavora quotidianamente, né quando ha iniziato a lavorare nel posto attuale… Insomma che non ricorda niente di quello che gli è accaduto prima degli ultimi tre anni?

Sferrò un altro pugno sulla scrivania, poi si sentì sciocco per averlo fatto. — Scusate — disse — non volevo inquietarmi così.