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Patricia A. McKillip

Voci dal nulla

Prologo

Silenzio. Una scogliera a strapiombo più nera dello spazio profondo. Un confuso cielo rossastro sullo sfondo. Un ovale ripiegato su se stesso, di tutti i colori o di nessun colore, disteso su sabbia ametista. Una visione sfocata di una stella rossa. La scogliera. L’ovale. Il sole rosso. La visione.

Silenzio. Tenebre.

Un suono. La prigioniera mosse gli occhi, vide grigio. Uno schienale imbottito dal quale sporgeva la manica di una divisa grigia. Polso. Dita. Un pannello di comando con una galassia di luci scintillanti. Ovali trasparenti incastonati in pareti grigie. Rastrelliere ovali.

Cambiò leggermente posizione, udì il proprio respiro, poi il crepitio di disturbi radio.

— Identificazione.

— Codice vocale sei: Devo arrivare di nuovo al mare, al mare solitario e al cielo. Qui Galeotto. Torniamo a casa a far la nanna. Un prigioniero.

— Stato.

— Estremamente pericoloso. Prevedere guardia doppia allo scalo. Richiediamo codice d’accesso.

— Parola d’ordine.

— Vagare in un mondo di sognatori, per non vedere il sole.

— Parola d’ordine.

— 4,057x10°.

— Parola d’ordine.

— Betty Grable. Galeotto, GMC909Z, richiede permesso d’entrare.

— Codice d’accesso C. Canale tre. Galeotto, potete entrare in Averno.

Un cerchio gigantesco che gira lentamente contro le stelle, due anelli che ruotano l’uno attorno all’altro, uno chiaro, uno scuro. Da una sezione dell’anello chiaro balenarono minuscole luci; la spaziomobile Galeotto virò nella loro direzione. La prigioniera fissò il pavimento. Attorno ai polsi aveva un cavetto di cristallo annodato mollemente. Se avesse fatto movimenti troppo bruschi, si sarebbe mozzata le mani. Dal lucido deserto grigio spuntavano quattro stivali. Se avesse alzato gli occhi, avrebbe visto fucili laser. In qualche galassia nel fondo tenebroso della sua mente esplose una stella. La luce le sfolgorò nel cervello. Emise un gemito; un fucile si mosse. Lei alzò la testa, piano piano, nella luce violenta.

Altri disturbi radio. Una voce diversa. — Galeotto, qui Archivio. Nome del prigioniero?

— Terra Viridian.

Dalla trasmittente provenne un fischio. — L’avete presa.

— Confermato.

— Stato giuridico.

— Una fedina lunga un chilometro. Possiamo darvi…

— Ce ne darete una copia all’arrivo, Galeotto. È sana di mente?

— Legalmente, sì.

— La vostra opinione.

Un attimo di silenzio. — Chiedetelo a lei. Guardatela negli occhi e chiedeteglielo. Archivio, viriamo nel corridoio d’accesso.

La paratia perimetrale incombeva già su di loro. La schermatura si aprì mettendo in mostra un ovale di vivide luci. La prigioniera si alzò. Un metro e 80, rapata a zero, smunta, aveva un aspetto talmente etereo da far pensare che il vento solare avrebbe potuto portarsela via. Ma l’innaturale immobilità del suo viso, i grandi occhi grigio fumo che sfioravano la faccia di una guardia, poi dell’altra, provocarono l’alzarsi dei fucili. Disse stancamente, con logica bizzarra: — Mi avete tagliato i capelli. Come potrei farvi del male?

Le guardie non risposero. Due visi: uno di uomo, uno di donna; uno chiaro, uno scuro, identici nell’espressione. Il comandante della spaziomobile ruotò il sedile per guardarla; accanto a lui, il navigatore fece scendere il vascello verso le luci.

— Siediti — disse il comandante.

— Vero o falso? — gli disse lei, come un antico indovinello. — Non sono pazza.

Lui la fissò negli occhi ancora un istante, cercando di scoprirvi la risposta, poi scosse la testa. — Una volta qui dentro, nell’Anello Scuro, non ha più importanza. — Quasi con gentilezza, aggiunse: — Quanti anni hai?

— Ventuno.

— Sant’Iddio. Un secolo qui dentro. Devi essere pazza. Avrebbero dovuto mandarti a Nuovorizzonte, rimetterti a posto il cervello.

— Non sono pazza.

— Hai assassinato 1509 persone. Non è pazzia, questa?

Lei lo fissò, come se lo udisse da molto lontano. — Tu appartieni a uno schema — disse, ripetendo quello che aveva detto centinaia di volte durante il processo. — Io sono impigliata in un altro.

L’uomo le girò le spalle con uno scatto di insofferenza. I grandi battenti ovali si spalancarono completamente. Più in basso brillavano le luci dello scalo. — Droga — disse. Ma lei non aveva terminato.

— La visione è diversa. — La sua voce sottile era attenta, insistente. — L’Anello Scuro non è nella visione.

L’uomo la guardò, di nuovo calmo, sforzandosi ancora di capirla. — Di che colore erano i tuoi capelli? Prima che te li tagliassero. Quando eri ancora bambina.

— Non ricordo.

— Non ricordi d’essere stata bambina?

— Non sono mai stata bambina.

— Sei un’assassina?

— Sì.

Poiché il comandante non si muoveva, il navigatore gli toccò il braccio. — Siamo arrivati — disse. — Volete programmare il codice d’accesso prima che saltiamo in aria?

Il comandante si girò, toccò con furia i pulsanti luminosi. — Certi giorni odio questo lavoro — mormorò. Tutt’attorno le luci rosse d’allarme ritornarono dorate. La spaziomobile si posò nel vasto silenzio metallico. La prigioniera si nascose dietro le palpebre abbassate e rimase in ascolto.

PARTE PRIMA

La Regina di Cuori

1

Il Mago sedeva da solo su un palco del Constellation Club e suonava Bach per i robot che gli danzavano attorno in un solenne minuetto, aspirando mozziconi di sigaretta dal pavimento. Anche se le pareti dell’ampio locale erano di un nero lucido privo di stelle, nel mondo esterno il sole sorgeva appena allora. L’uomo cambiò registro e passò a una sarabanda, e l’oscurità fu spazzata via da un’improvvisa marea di colore. Le pareti, risplendenti adesso di un pallido verde chartreuse, proclamavano le sei del mattino. Il Mago e i robot rimasero indifferenti. Solo Sidney Halleck, occupato a lucidare il piano di quercia di uno dei dieci e più banconi del locale, prestò attenzione al cambiamento. Un colore vicino a quello del fango, gli dissero i suoi occhi con un sussulto, sarebbe stato più sopportabile dopo una notte simile.

Le dita del Mago intrecciarono accordi in una nitida conclusione, poi balzarono avanti di tre secoli. Il pianoforte costruito più di 150 anni prima, un pezzo d’antiquariato pre-GLM, risuonò garbato ma preciso sotto la volta vuota del club. Sidney smise di strofinare il ripiano di quercia e vi si appoggiò sopra, ascoltando la musica. Era un uomo massiccio, con un viso paffuto e cordiale, naso pronunciato, occhi acuti e sereni. Di giorno il Constellation Club, con i suoi 20 palchi ovali disseminati qua e là, quasi tutti ingombri di apparecchiature, somigliava a un hangar di UFO. Il Mago con l’antico pianoforte a coda, intento a produrre musica misteriosa in uno stato di solitaria indifferenza, quasi fosse una sorta di soffiatore meccanico, d’un tratto sembrò a Sidney non meno identificabile di un qualsiasi oggetto sceso dalle stelle per atterrare nel suo club.

Il picchiettio di note senza schema giunse alla fine. Il Mago rimase immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, e continuò a premere delicatamente un tasto. Sidney attese: il si bemolle non portava a nessun risultato. Allora si intromise gentilmente nelle fantasticherie del Mago.

— Non era Hanro quello che hai appena suonato? Il Cocktail Aurora Boreale?

Il Mago annuì con aria assente. — Non si adatta bene al piano… — Continuava a far risuonare il tasto. Metà del viso magro e affilato era color rosso magenta a ricordo della notte appena trascorsa. Si tirò dietro un paio di neurocavi disinseriti che gli uscivano dalla cintura e dal collare. Un luccichio verde e magenta brillò sui suoi capelli, sulla tastiera.