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Robert A. Heinlein

Fanteria dello spazio

Al sergente Arthur George Smith, soldato, cittadino, scienziato, e a tutti i sergenti che in ogni luogo si sono dati da fare per trasformare in uomini i loro ragazzi

Ringraziamenti

La stanza tratta da “The ’Eathen” di Rudyard Kipling in esergo al capitolo 7 è riprodotta grazie all’autorizzazione degli eredi. Le citazioni dei versi della ballata “Roger Young” sono riprodotte grazie all’autorizzazione dell’autore, Frank Loesser.

1

Avanti, scimmioni! Volete vivere in eterno?

UN SERGENTE AL SUO PLOTONE, 1918

Mi viene sempre la tremarella prima del lancio. Mi hanno fatto l’iniezione, naturalmente, e la preparazione ipnotica, so benissimo che in realtà non ho paura. Lo psicoanalista della nave, che mi ha controllato le onde del cervello e fatto un sacco di domande mentre ero addormentato, mi assicura che non si tratta di paura, che è una cosa senza importanza, un po’ come il tremito di un cavallo da corsa che scalpita prima dell’inizio della gara.

Sarà. Non sono mai stato un cavallo da corsa, quindi non mi pronuncio. So una cosa sola: che tutte le volte, immancabilmente, è la stessa storia.

Trenta minuti prima dell’ora fissata, dopo che ci eravamo adunati nel vano di lancio della Rodger Young, il nostro comandante di squadrone giunse per l’ispezione. Non era il vero comandante dello squadrone, era il sergente, il sergente Jelal della Fanteria spaziale mobile, detto Gelatina. Il comandante, il tenente Rasczak, c’era rimasto durante l’ultimo lancio. Jelly era un finno-turco di Alexandretta, un ometto olivastro a cui non avresti dato due soldi, e invece io l’ho visto con i miei occhi agguantare due soldati alti il doppio di lui, sbattere le due teste una contro l’altra come se fossero state noci e farsi da parte mentre quelli crollavano a terra.

Fuori servizio non era cattivo, per essere un sergente. Si poteva persino chiamarlo Gelatina in sua presenza. Non i nuovi arrivati, naturalmente, ma solo quelli che avevano fatto almeno un lancio di combattimento.

Al momento, però, era in servizio. Ognuno di noi aveva ispezionato il proprio equipaggiamento da battaglia (si tratta della pellaccia, mi spiego?), quello che fungeva da sergente ci aveva già passati in rivista attentamente dopo l’adunata, e adesso Gelatina ci ispezionava di nuovo, con faccia feroce e occhi ai quali non sfuggiva niente.

Si fermò davanti all’uomo di fronte a me e gli premette un pulsante della cintura per avere i dati circa le sue condizioni fisiche. — Fuori dai ranghi!

— Ma, sergente, è solo un po’ di raffreddore. Il medico ha detto che…

Gelatina lo interruppe. — Ma sergente, un corno! — sbraitò. — Il medico non deve mica lanciarsi… e nemmeno tu, con la febbre che ti ritrovi. Credi che abbia tempo di stare qui a discutere con te prima di un lancio? Fuori, ho detto!

Jenkins ci lasciò, immusonito e furente. La cosa seccava anche a me. Visto che il tenente ci aveva lasciato le penne, durante l’ultimo lancio, c’era stata una rivoluzione nei quadri, e io mi trovavo ora a essere vicecapo della seconda squadra. Senza Jenkins, nella squadra c’era un vuoto che non avevo modo di colmare. Brutto affare. Significava che uno avrebbe potuto trovarsi nei guai, chiedere aiuto e non avere nessuno che glielo avrebbe dato.

Gelatina non scartò nessun altro. Finita l’ispezione si fermò di fronte a noi, ci squadrò ben bene e scosse la testa disgustato.

— Che manica di schiappe! — brontolò. — Se in questo lancio ci restate secchi tutti quanti, forse allora si potrebbe cominciare daccapo a mettere insieme il gruppo di uomini che il tenente si illudeva di fare di voi. E magari neanche, con quello schifo di reclute che si arruolano al giorno d’oggi. — D’improvviso s’impettì e prese a urlare: — Allora, cocchi di mamma, ci tengo solo a ricordarvi che ognuno di voi, tra munizioni, armature, strumenti, addestramento eccetera, compreso tutto quello che vi siete mangiato, è costato al governo qualcosa come mezzo milione. Aggiungeteci i trenta centesimi che ognuno di voi vale, e vedrete che si tratta di una bella somma. — Ci fulminò con lo sguardo. — Perciò, cercate di portare a casa la pelle. Di voi possiamo anche fare a meno, ma è quel patrimonio che avete addosso che ci sta a cuore. Non voglio eroi nel mio squadrone. Al tenente non sarebbero piaciuti. Avete un compito da svolgere. Andate giù, fate quello che dovete fare, tenete aperte le orecchie per quando vi sarà ordinato di rientrare e tenetevi pronti per il recupero, secondo l’ordine stabilito. Intesi? — Altra occhiataccia. — Il piano d’operazione dovreste averlo memorizzato in ipnosi. Ma siccome quando uno non ha cervello è inutile cercare di ipnotizzarlo, ve lo ripeterò ancora una volta, a voce. Sarete lanciati su due linee d’attacco, distanziate a due chilometri. Controllate la posizione rispetto a me appena atterrate, e mentre vi portate al riparo controllate anche posizione e distanza nei confronti dei compagni di pattuglia, su tutti e due i lati. Nel frattempo, avrete già sprecato dieci secondi, perciò fracassate e distruggete tutto quello che vi viene a tiro fino a quando non toccate terra. — (Ce l’aveva con me: come vicecaposquadra mi sarei trovato ultimo sul fianco sinistro senza nessuno a coprirmi dall’altra parte. Cominciai a tremare.) — Una volta atterrati tutti, raddrizzate le linee. Regolate gli intervalli! Fate solo questo! Dodici secondi. Poi avanzate a balzi, pari e dispari. I vicecapisquadra si occuperanno del conto dei secondi e guideranno il movimento a tenaglia. — Fissò me. — Se la manovra sarà eseguita correttamente, cosa di cui dubito, le due ali si saranno congiunte nel momento in cui suonerà la ritirata. E a questo punto si rientra alla base. Nessuna domanda?

Non ce ne furono. Non ce n’erano mai.

Lui continuò. — Un’ultima cosa. Questa è una semplice incursione, non un combattimento. È una dimostrazione di potenza bellica a scopo intimidatorio. La nostra missione è far capire ai nemici che avremmo potuto distruggere la loro città, ma non l’abbiamo fatto, e che possiamo provocare danni ingenti anche se ci asteniamo da un bombardamento totale. Non dovete prendere prigionieri. Ucciderete soltanto se non potrete farne a meno, ma l’intera area dell’incursione dovrà essere rasa al suolo. Non voglio vedere nessuno di voialtri scansafatiche tornare a bordo con bombe inesplose. Ci siamo capiti? — Controllò l’ora. — I Rompicollo di Rasczak hanno una reputazione da difendere. Prima di morire il tenente mi ha incaricato di dire che vi terrà costantemente d’occhio, e che si aspetta di vedere i vostri nomi risplendere di gloria!

Gelatina guardò il sergente Migliaccio, capo della prima sezione. — Cinque minuti per il Padre — concesse. Alcuni dei ragazzi uscirono dai ranghi e si inginocchiarono davanti a Migliaccio, non solo quelli che aderivano alla sua stessa fede.

Musulmani, cristiani, agnostici, ebrei, chiunque volesse una parola da lui, prima di un lancio, lo trovava là. Ho sentito dire che un tempo c’erano eserciti i cui cappellani non combattevano a fianco dei compagni. Non l’ho mai capito. Mi spiego: come fa un cappellano a benedire qualcosa che non è disposto a fare lui stesso? In ogni modo, nella Fanteria spaziale mobile tutti si lanciano e tutti combattono, compreso il cappellano, il cuoco e il gatto. Una volta iniziata la scivolata lungo il tubo di lancio, a bordo dell’astronave non sarebbe rimasto un solo Rompicollo. Salvo Jenkins, s’intende, ma non era colpa sua.

Io non mi avvicinai. Temevo sempre che da vicino qualcuno si accorgesse che tremavo. Del resto il Padre poteva benedirmi ugualmente dal punto in cui si trovava. Ma fu lui stesso ad accostarsi a me, appena l’ultimo di quelli in ginocchio si fu rialzato, premendo il suo elmetto contro il mio per parlarmi in privato.