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Non niegano l'eternità, poiché così la chiamano, delle sculture, ma dicono questo non esser privilegio che faccia l'arte più nobile ch'ella si sia di sua natura, per esser semplicemente della materia; e che se la lunghezza della vita desse all'anime nobiltà, il pino tra le piante, et il cervio tra gl'animali, arebbon l'anima oltramodo più nobile che non ha l'uomo; nonostante che ei potessino addurre una simile eternità e nobiltà di materia ne' musaici loro, per vedersene delli antichissimi quanto le più antiche sculture che siano in Roma, ed essendosi usato di farli di gioie e pietre fini. E quanto al piccolo o minor numero loro, affermano che ciò non è perché l'arte ricerchi miglior disposizione di corpo et il giudizio maggiore, ma che ei dipende in tutto dalla povertà delle sustanze loro, e dal poco favore o avarizia, che vogliamo chiamarlo, degli uomini ricchi; i quali non fanno loro commodità de' marmi, né danno occasione di lavorare; come si può credere e vedesi che si fece ne' tempi antichi, quando la scultura venne al sommo grado. Et è manifesto che chi non può consumare o gittar via una piccola quantità di marmi e pietre forti, le quali costano pur assai, non può fare quella pratica nell'arte che si conviene: chi non vi fa la pratica non l'impara, e chi non l'impara non può far bene. Per la qual cosa doverrebbono escusare piuttosto con queste cagioni la imperfezzione e il poco numero degli eccellenti, che cercare di trarre da esse, sotto un altro colore, la nobiltà.

Quanto a' maggior pregi delle sculture, rispondono che, quando i loro fussino bene minori, non hanno a compatirli, contentandosi di un putto che macini loro i colori e porga i pennelli o le predelle di poca spesa: dove gli scultori oltre alla valuta grande della materia vogliono di molti aiuti, e mettono più tempo in una sola figura che non fanno essi in molte e molte; per il che appariscano i pregi loro essere più della qualità e durazione di essa materia, degl'aiuti ch'ella vuole a condursi e del tempo che vi si mette a lavorarla, che dell'eccellenza dell'arte stessa. E quando questa non serva, né si truovi prezzo maggiore, come sarebbe facil cosa a chi volesse diligentemente considerarla, truovino un prezzo maggiore del maraviglioso bello e vivo dono, che alla virtuosissima et eccellentissima opera d'Apelle fece Alessandro il Magno, donandogli non tesori grandissimi o stato, ma la sua amata e bellissima Campsaspe; et avvertischino di più, che Alessandro era giovane, innamorato di lei, e naturalmente agli affetti di Venere sottoposto, e re insieme e Greco; e poi ne faccino quel giudizio che piace loro. Agli amori di Pigmalione, e di quegli altri scelerati, non degni più d'essere uomini, citati per pruova della nobiltà dell'arte, non sanno che si rispondere, se da una grandissima cecità di mente, e da una sopra ogni natural modo sfrenata libidine, si può fare argumento di nobiltà. E di quel non so chi allegato dagli scultori d'aver fatto la Scultura d'oro e la Pittura d'argento, come di sopra, consentono che se egli avesse dato tanto segno di giudizioso quanto di ricco, non sarebbe da disputarla. E concludono finalmente che l'antico vello dell'oro, per celebrato che e' sia, non vestì però altro che un montone senza intelletto: per il che né il testimonio delle ricchezze, né quello delle voglie disoneste, ma delle lettere, dell'esercizio, della bontà e del giudizio, son quelli a chi si debbe attendere.

Né rispondono altro alla difficultà dell'avere i marmi e i metalli, se non che questo nasce dalla povertà propria e dal poco favore de' potenti, come si è detto, e non da grado di maggiore nobiltà. All'estreme fatiche del corpo et a' pericoli propri e dell'opere loro, ridendo e senza alcun disagio rispondono che se le fatiche et i pericoli maggiori arguiscono maggiore nobiltà, l'arte del cavare i marmi delle viscere de' monti per adoperare i conii, i pali e le mazze, sarà più nobile della scultura; quella del fabbro avanzerà l'orefice, e quella del murare, l'architettura. E dicono appresso che le vere difficultà stanno più nell'animo che nel corpo; onde quelle cose che di loro natura hanno bisogno di studio e di sapere maggiore, son più nobili ed eccellenti di quelle che più si servono della forza del corpo; e che valendosi i pittori della virtù dell'animo più di loro, questo primo onore si appartiene alla pittura. Agli scultori bastano le seste o le squadre a ritrovare e riportare tutte le proporzioni e misure che eglino hanno di bisogno; a' pittori è necessario, oltre al sapere ben adoperare i sopradetti strumenti, una accurata cognizione di prospettiva, per avere a porre mille altre cose, che paesi o casamenti; oltra che bisogna aver maggior giudicio per la quantità delle figure in una storia, dove può nascer più errori, che in una sola statua. Allo scultore basta aver notizia delle vere forme e fattezze de' corpi solidi e palpabili e sottoposti in tutto al tatto, e di quei soli ancora che hanno chi gli regge. Al pittore è necessario non solo conoscere le forme di tutti i corpi retti e non retti, ma di tutti i trasparenti et impalpabili; et oltra questo bisogna ch'e' sappino i colori che si convengono a' detti corpi, la multitudine e la varietà de' quali, quanto ella sia universalmente e proceda quasi in infinito, lo dimostrano meglio che altro i fiori et i frutti oltre a' minerali; cognizione sommamente difficile ad acquistarsi ed a mantenersi per la infinita varietà loro.

Dicono ancora, che dove la scultura, per l'inobbedienza et imperfezzione della materia, non rappresenta gli affetti dell'animo, se non con il moto, il quale non si stende però molto in lei, e con la fazione stessa de' membri, né anche tutti i pittori gli dimostrano con tutti i moti, che sono infiniti, con la fazione di tutte le membra, per sottilissime che elle siano, ma che più? con il fiato stesso e con gli spiriti della vista. E che a maggiore perfezzione del dimostrare non solamente le passioni e gl'effetti dell'animo, ma ancora gl'accidenti a venire, come fanno i naturali, oltre alla lunga pratica dell'arte bisogna loro aver una intera cognizione d'essa fisionomia; della quale basta solo allo scultore la parte che considera la quantità e forma de' membri, senza curarsi della qualità de' colori, la cognizione de' quali, chi giudica dagli occhi conosce quanto ella sia utile e necessaria alla vera imitazione della natura alla quale chi più si accosta è più perfetto. Appresso soggiungono che, dove la scultura levando a poco a poco in un medesimo tempo dà fondo et acquista rilievo a quelle cose che hanno corpo di loro natura, e servesi del tatto e del vedere, i pittori in due tempi danno rilievo e fondo al piano con l'aiuto di un senso solo; la qual cosa, quando ella è stata fatta da persona intelligente dell'arte, con piacevolissimo inganno ha fatto rimanere molti grandi uomini, per non dire degli animali: il che non si è mai veduto della scultura, per non imitare la natura in quella maniera che si possa dire tanto perfetta quanto è la loro.

E finalmente, per rispondere a quella intera ed assoluta perfezzione di giudizio che si richiede alla scultura, per non aver modo di aggiugnere dove ella leva, affermando prima che tali errori sono, come ei dicano, incorregibili, né si può rimediare loro senza le toppe, le quali così come ne' panni sono cose da poveri di roba, nelle sculture e nelle pitture similmente son cose da poveri d'ingegno e di giudizio. Di poi che la pazienza con un tempo conveniente, mediante i modelli, le centine, le squadre, le seste et altri mille ingegni e strumenti da riportare, non solamente gli difendano dagli errori, ma fanno condur loro il tutto alla sua perfezzione, concludono che questa difficultà che ei mettano per la maggiore, è nulla o poco rispetto a quelle che hanno i pittori nel lavorare in fresco; e che la detta perfezzione di giudizio non è punto più necessaria alli scultori che a' pittori, bastando a quelli condurre i modelli buoni di cera, di terra, o d'altro, come a questi i loro disegni in simili materie pure o ne' cartoni, e che finalmente quella parte che riduce a poco a poco loro i modelli ne' marmi, è più tosto pazienza che altro. Ma chiamisi giudizio, come vogliono gli scultori, se egli è più necessario a chi lavora in fresco, che a chi scarpella ne' marmi. Perciò che in quello non solamente non ha luogo né la pacienza né il tempo, per essere capitalissimi inimici della unione della calcina e de' colori, ma perché l'occhio non vede i colori veri, insino a che la calcina non è ben secca, né la mano vi può aver giudizio d'altro che del molle o secco; di maniera che chi lo dicesse lavorare al buio o con occhiali di colori diversi dal vero, non credo che errasse di molto, anzi non dubito punto che tal nome non se li convenga più che al lavoro d'incavo, al quale per occhiali, ma giusti e buoni, serve la cera. E dicono che a questo lavoro è necessario avere un giudizio risoluto, che antivegga la fine nel molle, e quale egli abbia a tornar poi secco; oltra che non si può abbandonare il lavoro mentre che la calcina tiene del fresco, e bisogna risolutamente fare in un giorno quello che fa la scultura in un mese. E chi non ha questo giudizio e questa eccellenzia, si vede nella fine del lavoro suo, o col tempo, le toppe, le macchie, i rimessi, et i colori soprapposti o ritocchi a secco, che è cosa vilissima; per che vi si scuoprono poi le muffe, e fanno conoscere la insufficienza et il poco sapere dello artefice suo, sì come fanno bruttezza i pezzi rimessi nella scultura; senzaché, quando accade lavare le figure a fresco, come spesso dopo qualche tempo avviene, per rinovarle, quello che è lavorato a fresco rimane, e quello che a secco è stato ritocco, è dalla spugna bagnata portato via.