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«Ehi, voi, laggiù, il mio cavallo!»

Nel recinto dei cavalli dell’Ordine nacque un tumulto.

«Non quello là!» gridò il barone. «Quell’altro, lo stallone grigio pezzato!»

«In nome del Signore!» urlò Rumata e si aggiustò il cerchietto sulla fronte.

Un monaco spaventato dal mantello sporco portò al barone il suo cavallo.

«Dagli qualcosa, Don Rumata» disse il barone, issandosi in sella con difficoltà.

«Ferma, ferma!» gridavano dalla Torre.

Alcuni monaci arrivarono di corsa, brandendo i randelli. Rumata tese al barone una delle spade.

«Forza, barone, fai presto!» gli disse.

«Sì. Devo sbrigarmi. Quell’Arima mi sta prosciugando la cantina. Ti aspetto al castello domani o dopodomani, amico mio. Messaggi per la baronessa?»

«Baciale la mano per me» disse Rumata. I monaci ormai erano quasi su di loro.

«Ma adesso vai, presto!»

«Sei fuori pericolo, amico mio?» La voce del barone tradiva la preoccupazione per la sicurezza dell’amico.

«Sì, sì, maledizione! Muoviti!»

Il barone si gettò al galoppo contro la folla di monaci. Uno di essi cadde a terra, un altro rotolò lontano, si sentì gemere, si alzò un nuvolone di polvere, gli zoccoli del cavallo stridettero sul selciato e il barone sparì dalla vista. Rumata guardava in fondo a una stradina dove si erano rifugiati quelli che erano stati feriti nel tumulto.

Improvvisamente sentì una voce insistente e insinuante.

«Ma, mio nobile signore, non le sembra di essersi preso delle libertà illecite?»

Rumata si voltò e si trovò di fronte il sorriso affettato di Don Reba.

«Illecite?» disse Rumata. «Nel mio vocabolario questa parola non esiste».

Improvvisamente si ricordò di Don Sera. «E comunque, non vedo perché due gentiluomini non dovrebbero aiutarsi a vicenda in caso di difficoltà».

Un gruppo di monaci ansimanti li oltrepassò, con le alabarde in mano, all’inseguimento del barone Pampa. Il viso di Don Reba mutò espressione.

«Va bene, allora» disse. «Dimentichiamo tutto. Oh, ma non si tratta qui dell’eccellentissimo dottor Budach? È in splendida forma, dottore. Penso che dovrei ispezionare la mia prigione. I criminali politici, inclusi i prigionieri liberati, non devono mai andarsene a piedi. Dovrebbero essere trasportati».

Il dottor Budach tentò di gettarsi ciecamente contro Don Reba. Rumata si mise subito tra i due.

«A proposito, Don Reba» disse. «Che mi dice di Padre Arima?»

«Padre Arima?» Don Reba aggrottò le sopracciglia. «Un guerriero straordinario.

Occupa una posizione molto alta nel mio episcopato. Che cosa significa questa domanda?»

«Come servo fedele di Vostra Magnificenza» disse Rumata con evidente piacere «mi affretto a informarla che può considerare vacante la sua alta posizione».

«Come mai?»

Rumata guardò in fondo al viottolo dove la polvere giallastra non si era ancora posata. Anche Don Reba guardò da quella parte. Sul suo viso apparve un’espressione preoccupata.

Era ormai pomeriggio inoltrato quando Kyra chiese al suo signore e al suo distinto ospite di accomodarsi a tavola.

Ora che il dottor Budach aveva fatto un bagno, si era rasato e aveva indossato degli abiti puliti, aveva un aspetto piacevole e maestoso.

I suoi movimenti erano decisi e pieni di dignità, gli occhi grigi e intelligenti guardavano da sotto le sopracciglia folte in modo benevolo e quasi condiscendente.

Per prima cosa si scusò con Rumata del suo comportamento impulsivo verso Don Reba durante il loro incontro sulla piazza.

«La prego di capirmi» disse. «È una persona orribile, un mostro capitato su questo mondo per volere divino. Sono un medico, ma non mi vergogno di ammettere che lo ucciderei se ne avessi l’opportunità. Mi è giunta notizia che il Re è stato avvelenato.

Ora capisco come è successo». Rumata ascoltò attentamente. «Quel Reba è venuto nella mia cella e mi ha chiesto di preparare un veleno che facesse effetto qualche ora più tardi. Naturalmente, ho rifiutato. Ha minacciato di farmi torturare, e gli ho riso in faccia. Per tutta risposta ha chiamato i suoi aguzzini e ha detto loro di portargli una decina di bambini sotto i dieci anni. Li ha allineati davanti a me, ha aperto la mia borsa delle medicine e ha detto che avrebbe sperimentato i miei farmaci uno dopo l’altro su quelle povere cavie umane, fino a trovare quello giusto. Ed è stato così che il Re è stato avvelenato, Don Rumata».

Le labbra di Budach cominciarono a tremare, ma ritrovò subito la calma. Rumata annuì e si voltò, per non imbarazzare l’ospite. «Adesso finalmente capisco» pensò.

«Ora capisco tutto. Il Re non avrebbe mai accettato nulla dalle mani dei suoi ministri, neppure un sottaceto. Così il maledetto ha pensato di scovare un ciarlatano di terz’ordine promettendogli di farlo diventare medico personale del Re come ricompensa per aver curato le sue gambe. Adesso è chiaro perché Don Reba era così trionfante quando l’ho provocato nella camera reale: gli ho fornito il destro per affibbiare al Re un falso Budach. La responsabilità ricadeva tutta sulle spalle di Rumata di Estor, cospiratore e spia di Irukan. Siamo noi i veri novellini. Siamo come dei cuccioli sciocchi e ingenui. All’Istituto dovrebbero introdurre un corso di intrighi feudali. E anche uno per l’acquisizione delle capacità necessarie alla cattura dei Reba dell’universo, grandi e piccoli».

Il dottor Budach era chiaramente affamatissimo. Ciononostante, rifiutò cortesemente ma decisamente tutti i piatti di carne e assaggiò solo le insalate, la pasta e i dessert. Bevve anche un bicchiere di vino di Estor e i suoi occhi ricominciarono a scintillare. Sulle sue guance si diffuse un colorito roseo. Rumata non riusciva a inghiottire neppure un boccone. Aveva ancora davanti agli occhi le torce fumanti; sentiva ancora l’odore della carne bruciata. Aveva un nodo alla gola. Così aspettò che il dottor Budach finisse di mangiare a sazietà, mentre lui, Rumata, appoggiato al davanzale, conversava gentilmente, evitando di disturbare l’ospite che si godeva il pranzo.

Lentamente, in città riprendeva la vita. Nelle strade tornava la gente, si sentivano voci sempre più alte, accompagnate dal battere dei martelli e dallo scricchiolio del legno: stavano abbattendo gli idoli di legno dai muri e dai tetti. Un negoziante calvo e grasso spingeva davanti a sé un carretto carico di barili di birra, per andare a venderla in piazza a due centesimi il boccale. La gente camminava sottobraccio, dandosi pacche amichevoli sulla schiena. Sotto il portale, dall’altra parte della strada, vide la sua spia e guardia del corpo che parlava con una donna magra. Sotto la finestra passavano dei carri pieni di roba. Sul momento Rumata non capì che cosa portassero; poi vide mani e piedi bluastri che sporgevano da sotto i mucchi di spazzatura. Si allontanò in fretta dalla finestra.

«La natura umana» disse Budach, masticando con gusto «è caratterizzata dall’abilità di adattarsi a tutto. Al mondo non esiste niente a cui l’uomo non possa adattarsi. I cani, i cavalli, non possiedono quest’abilità. Presumibilmente, quando Dio ha creato l’uomo ha considerato le sofferenze a cui sarebbe stato sottoposto nel mondo, e quindi l’ha dotato di una grandissima capacità di sopportazione.

Naturalmente è difficile dire se sia un bene o un male. Se l’uomo non fosse stato dotato di questo potenziale, allora tutti i buoni sarebbero morti da un pezzo, e sarebbero sopravvissuti solo i malvagi e i senza cuore. D’altro canto, la tolleranza e l’adattabilità rendono l’uomo una bestia ottusa, distinguibile dagli animali solo per la struttura fisica, inferiore perfino alle bestie più infime, come capacità di difendersi. E ogni giorno crescono gli esempi di orrore, di malvagità e di brutalità…»