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(Nota: La traduzione dei versi di Tennyson è di Giovanni Pascoli. [N. d.T.]. Fine nota)

«E cercare e trovare…» Bene, ora sapeva che cosa cercare e anche che cosa avrebbe trovato — perché sapeva esattamente dove l’avrebbe trovato. Solo un incidente imprevedibile, una catastrofe, gli avrebbe potuto impedire di trovarlo.

Non era una mèta, quella, che si fosse proposto consapevolmente, e nemmeno ora sapeva spiegarsi come mai avesse a un tratto assunto tanta importanza. Si era creduto immune dalla febbre che ancora una volta — per la seconda volta nel corso della sua vita! — aveva preso l’umanità, ma forse si sbagliava. O forse era stato l’invito a far parte dello scelto gruppo che doveva imbarcarsi sulla Universe che gli aveva acceso l’immaginazione, risvegliando in lui un entusiasmo che non sapeva di possedere.

C’era anche un’altra possibilità. Anche dopo tanti anni ricordava benissimo la delusione dell’uomo della strada per il passaggio a distanza ravvicinata del 1985-86. Si presentava ora l’occasione — l’ultima, per lui, e la prima per l’umanità — di rimediare alle delusioni del passato.

Nel XX secolo erano possibili solo i passaggi orbitali a distanza ravvicinata. Questa volta, invece, vi sarebbe stato un atterraggio vero e proprio un’impresa nuova e rivoluzionaria, a suo modo, quanto la passeggiata lunare di Aldrin.

Il dottor Heywood Floyd, veterano della missione su Giove del 2010-15, vide con gli occhi della mente il remoto corpo astrale che ancora una volta ritornava dalle profondità dello spazio accelerando sempre di più mentre si accingeva a girare attorno al Sole. E tra le orbite della Terra e di Venere la cometa più famosa della storia avrebbe incontrato l’astronave Universe, attualmente ancora in preparazione, nel suo viaggio inaugurale.

Il punto esatto del rendezvous non era ancora stabilito, ma la decisione del dottor Floyd era irrevocabile. «Cometa di Halley, arrivo…» bisbigliò Heywood Floyd.

2. PRIMO AVVISTAMENTO

Non è vero che bisogna lasciare la Terra per poter apprezzare tutto lo splendore del cielo. Il cielo stellato visto dallo spazio non è più bello di quello che si vede dalla cima di un’alta montagna in una notte limpida, lontano da ogni sorgente di luce artificiale. Le stelle appaiono più luminose se viste fuori dall’atmosfera, ma l’occhio non è in grado di cogliere la differenza; e poi il colpo d’occhio offerto da tutto un emisfero celeste è ben altra cosa della fettina di cielo che si può vedere da un oblò.

Ma Heywood Floyd era più che contento di come gli appariva l’universo, e soprattutto quando la zona residenziale si trovava nel cono d’ombra proiettato dall’ospedale in lenta rotazione. Allora nel suo campo visivo rettangolare non si vedevano altro che stelle, pianeti, nebulose — e talvolta, più luminosa di tutti, la luce ferma e splendente di Lucifero, in gara con quella del Sole.

Dieci minuti prima che iniziasse la sua notte artificiale spegneva tutte le luci della cabina — anche la lucina rossa d’emergenza — in modo da avere il tempo di abituarsi al buio assoluto. Aveva scoperto tardi, per essere un tecnico spaziale, i piaceri dell’astronomia a occhio nudo; ora però sapeva riconoscere praticamente tutte le costellazioni anche solo scorgendone una piccola parte.

Quasi ogni «notte», in maggio, quando la cometa passava internamente all’orbita di Marte, egli ne aveva rilevato la posizione sulle carte astrali. Anche se sarebbe stato facile trovarla con l’aiuto del binocolo, Floyd non ne aveva voluto sapere; era, il suo, un gioco: voleva vedere fino a che punto poteva ancora fidarsi dei suoi occhi di vecchio. Due astronomi di Mauna Kea avevano già affermato di aver scorto la cometa a occhio nudo, ma nessuno aveva prestato loro fede, e analoghe affermazioni da parte di pazienti dell’ospedale Pasteur avevano suscitato ancora maggior scetticismo.

Ma per quella notte era prevista come minimo una magnitudine sei, e forse avrebbe avuto fortuna. Tracciò una linea immaginaria da Gamma a Epsilon Eridani e cercò al vertice del triangolo equilatero che aveva quella linea come base — aguzzando gli occhi come se potesse attraversare con lo sguardo tutto quanto il sistema solare semplicemente con uno sforzo di volontà.

Ed eccola là! Proprio dove l’aveva avvistata la prima volta, settantasei anni prima, appena percettibile ma inequivocabile. Se non avesse saputo esattamente dove guardare, non avrebbe visto nulla, o l’avrebbe scambiata per una nebulosa lontanissima.

Vista così a occhio nudo la cometa appariva un punto luminoso un po’’ sfocato e perfettamente sferico; per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere traccia alcuna di coda. Ma le sonde che da mesi la seguivano avevano già rilevato le prime tracce di gas e polveri che di lì a poco avrebbero formato la coda, orientata in direzione opposta al Sole, dal quale prendeva origine.

Come tutti, anche Heywood Floyd aveva seguito la trasformazione del nucleo, freddo e scuro — no, più che scuro, quasi nero — via via che si addentrava nel sistema solare. Dopo settant’anni di zero assoluto o quasi, l’acqua, l’ammoniaca e le altre sostanze congelate cominciavano a riscaldarsi e a evaporare. Un asteroide grande quanto l’isola di Manhattan — e anche pressappoco della stessa forma — roteava su se stesso con un periodo di cinquantatrè ore; e via via che il calore del Sole penetrava attraverso la crosta isolante, le sostanze ghiacciate evaporavano e la Cometa di Halley si comportava come una caldaia a vapore bucata. Getti di vapore acqueo mescolato a polveri e a chissà quali composti organici fuoriuscivano da cinque o sei piccoli crateri; il maggiore era grande all’incirca quanto un campo da football e prendeva regolarmente a eruttare due ore dopo che il Sole si era levato sopra l’orizzonte della cometa. Era identico a un famoso geyser terrestre, e infatti subito l’avevano battezzato «Old Faithful», il Vecchio Fedele.

Già Heywood Floyd s’immaginava ritto sull’orlo di quel cratere in attesa che il Sole sorgesse sul buio e contorto paesaggio che già conosceva per averlo visto nelle fotografie prese dallo spazio. Purtroppo, quando l’astronave sarebbe atterrata sulla Cometa di Halley, non era previsto che i passeggeri sbarcassero, come avrebbero fatto invece il personale scientifico e l’equipaggio.

D’altra parte, nell’accordo che aveva sottoscritto non si vietava esplicitamente lo sbarco dei passeggeri.

Avranno il loro daffare a impedirmelo… pensò Heywood Floyd, so usare ancora una tuta spaziale. E se invece non ne sono più capace…

Gli tornò alla mente una cosa che aveva letto. Vedendo il Taj Mahal, un turista aveva detto: «Sono pronto a morire anche domani per un monumento così.»

Lui si sarebbe accontentato della Cometa di Halley.

3. RIENTRO

Anche a prescindere dall’incidente, il ritorno sulla Terra non era stato facile.

Il primo trauma era venuto subito dopo che la dottoressa Rudenko l’aveva risvegliato dal suo lungo sonno. Accanto a lei c’era Walter Curnow, e sebbene Floyd non fosse ancora pienamente cosciente si era accorto subito che qualcosa non andava. I due l’avevano salutato con un calore esagerato che non riusciva a nascondere la tensione. Solo quando si fu del tutto ripreso gli dissero che il dottor Chandra era morto.

Oltre l’orbita di Marte il suo corpo aveva cessato di vivere e la morte era avvenuta così gradualmente che gli strumenti di controllo non avevano potuto individuarne il momento esatto. Il cadavere, alla deriva nello spazio, aveva continuato a seguire l’orbita della Leonov e già da lungo tempo era stato distrutto dai fuochi del Sole.