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Tutti sapevano quanto era successo in seguito; e — forse saggiamente — si era deciso di non ricostruire gli avvenimenti successivi. Invece l’immagine di Europa svanì in dissolvenza, e fu sostituita da un volto che ai cinesi era familiare quanto quello di Jurij Gagarin ai russi.

La prima fotografia mostrava Rupert Chang il giorno in cui, nel 1989, si era laureato: un giovanotto pieno di vita uguale a milioni di altri giovanotti identici a lui, del tutto inconsapevole dell’appuntamento con la storia che gli riserbava il futuro.

Il commentatore riassunse brevemente, con un sommesso sottofondo musicale, la carriera del dottor Chang fino a quando s’imbarcò sulla Tsien come ufficiale scientifico. Le fotografie mostrarono un volto sempre meno giovane fino all’ultima, quella scattata prima della partenza.

Sir Lawrence era contento che il planetario fosse buio perché altrimenti amici e nemici avrebbero visto con sorpresa che aveva gli occhi pieni di lacrime mentre ascoltava le ultime parole che il dottor Chang aveva trasmesso alla Leonov, e senza nemmeno sapere se qualcuno le avrebbe mai captate.

«… a bordo della Leonov… non ho molto tempo… oriente l’antenna della tuta dove mi sembra che…»

Il segnale diminuì e scomparve per qualche terribile secondo; quindi ritornò molto più chiaro, ma non più forte.

«… comunicare queste informazioni alla Terra. La Tsien è andata distrutta tre ore fa. Io sono l’unico sopravvissuto. Sto usando la radio della tuta, non so se sia abbastanza potente, ma non ho altro. Prego ascoltare attentamente. C’È VITA SU EUROPA. Ripeto: C’È VITA su EUROPA…»

Il segnale scomparve, ritornò…

«… poco dopo la mezzanotte, ora locale. Stavamo pompando l’acqua e i serbatoi erano pieni quasi a metà. Il dottor Li e io siamo usciti per controllare l’isolamento dei tubi. La Tsien è — era — a una trentina di metri dal Grande Canale. I tubi collegano l’astronave all’acqua, passando attraverso lo strato di ghiaccio. Il ghiaccio è molto sottile non ci si può nemmeno camminare sopra. L’acqua più calda che sale…»

Ancora un lungo silenzio…

«… nessun problema — l’astronave era illuminata con cinquemila watt. Come un albero di Natale — molto bella, vista così sul ghiaccio. Colori stupendi. È stato Li a vedere per primo la cosa, una gran massa scura che saliva dal fondo. In un primo momento abbiamo creduto che fosse un banco di pesci — era troppo grande per essere un unico organismo — ma poi ha cominciato a uscire rompendo il ghiaccio…

«… come enormi ciuffi di alghe bagnate che strisciavano sul terreno. Li è tornato di corsa sull’astronave per prendere una macchina fotografica — io sono rimasto lì a guardare, mantenendo il contatto radio. La cosa si muoveva molto piano, era molto più lenta di un uomo. Ero eccitatissimo, ma non avevo nessuna paura. Credevo di sapere di che cosa si trattasse — ho visto le foto delle foreste di alghe che ci sono al largo della California — ma mi sbagliavo di grosso.

«… aveva dei problemi, si vedeva benissimo. Non poteva resistere a una temperatura di centocinquanta gradi più bassa di quella del suo ambiente naturale. Congelava a vista d’occhio man mano che veniva avanti — se ne staccavano schegge, come vetro che si rompe — ma continuava ad avanzare in direzione dell’astronave come una nera onda di marea, e rallentando sempre di più.

«Io, per via della sorpresa, non riuscivo a pensare chiaramente, e non ho indovinato che intenzioni avesse…

«… avvicinandosi all’astronave, scavando una specie di tunnel di ghiaccio via via che avanzava. Forse per proteggersi dal freddo, come fanno le termiti che si riparano dal sole scavando corridoi di fango.

«… tonnellate di ghiaccio addosso all’astronave. Per prima si è rotta l’antenna della radio. Poi ho visto il treppiede di atterraggio che s’inclinava da una parte lentamente, come in sogno.

«Solo quando l’astronave ha cominciato a cadere mi sono reso conto di che cosa stava facendo quella cosa uscita dalle acque, e ormai era troppo tardi. Ci saremmo potuti salvare, certo. Sarebbe bastato spegnere le luci.

«Forse è un riflesso fototropico. Il suo cielo biologico si attiva quando la luce del sole penetra attraverso il ghiaccio. O magari la luce l’attrae come una candela le falene. I nostri proiettori davano la luce più forte che si fosse mai vista su Europa…

«L’astronave è caduta e si è sfasciata. Ho visto lo scafo spaccarsi, e il vapore acqueo che ne usciva formare una nube di fiocchi di neve. Tutte le luci si sono spente tranne una, e questa oscillava sospesa a un cavo a un paio di metri da terra.

«Non so che cosa sia successo subito dopo. So solo che mi sono trovato sotto quell’unica luce, accanto all’astronave fracassata, con una sottile spolverata di neve fresca tutto intorno su cui si vedevano molto bene le mie orme. Devo essere corso lì appena l’astronave è caduta. Non credo fossero passati più di due minuti da quando…

«La pianta — sì, perché ancora quando ci penso la chiamo così, «la pianta» — era ferma. Forse l’urto l’aveva danneggiata; grosse schegge — grosse quanto un braccio — si erano staccate come ramoscelli rotti.

«Poi la massa principale ha ripreso a muoversi. Si allontanava dallo scafo e veniva nella mia direzione. Fu allora che mi resi conto che reagiva alla luce: io stavo proprio sotto un proiettore da mille watt, che ormai non oscillava più.

«Immaginatevi il tronco di una quercia — o, meglio, di un banano, con tronchi e radici multiple — che, schiacciato dalla gravità, cerca di strisciare per terra. Quando è arrivata a cinque metri dalla luce si è fermata e ha cominciato ad allargarsi fino a formare un cerchio intorno a me. Forse era quello il limite di soglia — il punto in cui l’attrazione verso la luce diventa repulsione. Dopo di che, non è successo niente per parecchi minuti. Ho pensato che forse era morta — o congelata, come minimo.

«Poi mi sono accorto che su molte delle sue appendici, o rami, si stavano formando grosse escrescenze, specie di gemme. Pareva un film accelerato, di quelli in cui si vede un fiore che sboccia. E sembravano proprio fiori — fiori grossi quanto la testa di un uomo.

«C’erano membrane sottili, dai bei colori delicati, che si spiegavano. Ho pensato che nessuno — nulla, anzi — poteva aver visto prima quei colori; non esistevano prima che noi portassimo la luce, la nostra luce fatale, su questo mondo.

«Viticci, stami, che oscillavano lievemente… Mi sono avvicinato al muro vivente che mi circondava per vedere meglio. Mai ho avuto paura, nemmeno in quel momento, di quell’essere. Sono sicuro che non ce l’aveva con noi — se poi è in qualche modo consapevole.

«C’erano decine e decine di quei grandi fiori, quale più e quale meno aperto. Visti così da vicino mi ricordavano farfalle che stanno uscendo dalla crisalide — le ali tutte piegate e ancora deboli. Mi stavo avvicinando alla verità.

«Ma il freddo era terribile, e i fiori morivano appena sbocciati. Poi, l’uno dopo l’altro si sono staccati dalle escrescenze, o gemme, e sono caduti a terra. Lì, per terra, per qualche secondo si dibattevano come pesci in secca — e allora ho capito che cosa erano in realtà. Quelle membrane non erano petali — erano larve, o i loro equivalenti. Gli pseudofiori erano le larve mobili di quell’essere. Probabilmente è sessile, e trascorre gran parte della vita solidamente fissato al fondo del mare, e manda quelle sue gemmazioni mobili in cerca di nuovi tenitori. Così fanno i coralli degli oceani terrestri.

«Mi sono messo in ginocchio per dare un’occhiata più da vicino a una di quelle larve. I bei colori sbiadivano a vista d’occhio: gli organismi mobili erano ora di un brutto color brunastro. Le membrane si erano indurite per via del freddo e qualcuna si era rotta come in tante schegge. Però la larva si muoveva ancora debolmente, e quando mi sono avvicinato ha cercato di ritrarsi. Chissà come faceva a sentire la mia presenza.