Rimasta sola con Ben, Catherine valutò i pro e i contro di andare a letto. Sul versante dei pro, era esausta. Ma la casa aveva assorbito tanto di quel calore che probabilmente non sarebbe riuscita a dormire.
— Vuoi qualcosa, Ben? — gli chiese.
— Mm? No, grazie, — rispose lui. Era ancora seduto vicino alla finestra, la camicia bianca resa quasi trasparente dal sudore. Nonostante la stazza da orso, non aveva peli sul corpo, per quanto le era dato vedere.
— A proposito, come stai? — gli chiese. Sembrava una domanda leggermente assurda a quell’ora di sera.
— Stanco, — disse lui.
— Anch’io. Non è strano che abbiamo vissuto qui insieme, giorno dopo giorno, e abbiamo cantato insieme all’infinito senza quasi scambiare una parola?
— Io non sono un gran conversatore.
Ben chiuse gli occhi poggiando la testa all’indietro, come se stesse per liberare l’anima nell’etere, lasciandosi dietro il corpo.
— Sai, — disse Catherine, — dopo tanti anni non so quasi niente di te.
— C’è ben poco da dire.
— Non so nemmeno esattamente di che nazionalità è tua moglie.
— Vietnamita.
— Lo immaginavo.
A quel punto la comunicazione si spense, ma senza dar adito a imbarazzo. L’acustica emotiva della stanza non era satura di vergogna e frustrazione, come nei silenzi fra lei e Roger. Il silenzio era una condizione naturale per Ben, e piombarci dentro insieme a lui era come raggiungerlo nel suo mondo, dove conosceva intimamente ogni onda sonora assopita, dov’era immune da paure.
Dopo un po’, seduta nell’immobilità del salotto oro e marrone insieme a Ben, Catherine diede un’occhiata all’orologio che lui aveva al polso. Mancava poco a mezzanotte. Ben non era mai stato in piedi così a lungo.
— Hai sempre voluto diventare un cantante? — gli chiese.
— No, — disse lui. — Volevo continuare a fare il timoniere.
Lei rise suo malgrado. — Continuare a fare che cosa? — Le tornarono in mente quelle orribili commedie cinematografiche che suo padre non le aveva mai permesso di guardare, neanche quando era abbastanza grande da uscire con Roger Courage.
— All’università, — spiegò Ben, — facevo il timoniere in una squadra di canottaggio. Urlavo le direttive con il megafono. Mi piaceva tantissimo.
— Poi cos’è successo?
— Ho aderito al movimento contro la guerra nel Vietnam. All’epoca Cambridge non era esattamente di sinistra. Ho perso buona parte degli amici. E poi sono ingrassato.
Non sei grasso, avrebbe voluto tranquillizzarlo Catherine, con benevolenza quasi istintiva, poi si rese conto che era un’assurdità, e si sforzò di mantenere una faccia impassibile davanti a quella faccia di luna piena. Le rassicurazioni sono una cosa così triste e pazzesca, pensò. Chiunque, nell’intimo, conosce la verità.
— Che cosa pensi davvero del Partitum Mutante, Ben?
— Be-e-e’… devo ammettere che per il basso è una passeggiata. Ma non credo che passeremo il resto del ventunesimo secolo a cantarla.
Calò nuovamente il silenzio. I minuti passavano. Catherine si accorse per la prima volta che non c’erano orologi nello Château de Luth, tranne quelli dei computer e del forno, e gli orologi da polso degli ospiti umani. Forse un tempo c’erano stati splendidi esemplari antichi rubati da qualche ospite precedente — immaginò Cathy Berberian che ne avvolgeva furtivamente uno fra la biancheria preparando la valigia per tornare a casa. O forse non c’erano mai stati orologi su quelle pareti, perché gli arredatori del castello avevano capito che il ticchettio dei secondi sarebbe stato esasperante, insopportabile, nel silenzio del bosco.
A un tratto, dall’esterno giunse un gemito lamentoso, indecifrabile, un grido così acuto e sinistro che Axel non sarebbe mai stato capace di emettere. Catherine aveva la carne elettrizzata dalla paura.
— Ecco! — disse a Ben. — L’hai sentito?
Ma, guardando verso di lui, si accorse che aveva gli occhi chiusi, il grosso petto che si alzava e si abbassava ritmicamente.
Catherine balzò su dal divano e si precipitò verso la porta d’ingresso. L’aprì — pianissimo, per non svegliare Ben — e sbirciò nella notte, che risultava di un’oscurità impenetrabile ai suoi occhi non abituati. Il bosco non si distingueva dal cielo, se non per il fatto che in uno c’erano le stelle e nell’altro no. Catherine era quasi convinta che Dagmar e Axel fossero stati fagocitati da un demone solitario, ingoiati dalla terra per non ricomparire mai più. Fu quasi una delusione quando, qualche minuto dopo, madre e figlio si materializzarono dalle tenebre avanzando lemme lemme verso il castello, le scarpe da ginnastica bianche di Dagmar che sfavillavano.
— Hai sentito il grido? — chiese Catherine, mentre Dagmar raggiungeva la soglia.
— Che grido? — disse Dagmar. Axel aveva gli occhi spalancati ed era pieno di energia, ma la madre era sfinita, pronta per andare a letto. Indugiò sulla soglia, come se stesse considerando l’idea di far tenere un po’ il figlio a Catherine.
♫♫
Il giorno dopo, Roger telefonò a Pino Fugazza per dirgli che c’era un problema con il Partitum Mutante. Un problema tecnico, disse. Ormai l’avevano provato così a fondo, disse, che erano nella posizione di distinguere le asperità che derivavano da una scarsa dimestichezza con lo spartito da quelle che forse… be’, erano nello spartito stesso.
Mentre Roger parlava, gli altri componenti del Coro Courage erano seduti nei paraggi a chiedersi come avrebbe reagito Pino, soprattutto sentendo che Roger veniva indotto, poco a poco, a entrare sempre più nel merito del problema, vale a dire che, in un certo punto, le indicazioni temporali di Pino proprio non tornavano. L’ardita aritmetica musicale dell’italiano, un’intricata foresta di poliritmie indipendenti, doveva risolversi alla 404a barra (per simboleggiare i 4004 anni che andavano dalla Creazione alla nascita di Cristo), così che Roger e Catherine si ritrovavano a un tratto a cantare perfettamente all’unisono, raggiunti alla barra successiva da Julian e Dagmar, mentre Ben manteneva i toni bassi di sottofondo.
— Il fatto è, — disse Roger al telefono, — che alla 404a barra il baritono è una battuta indietro rispetto al soprano.
Dalla cornetta arrivava un chiacchiericcio stridulo, indecifrabile per gli altri.
— Be’… — disse Roger con una smorfia, assestandosi gli occhiali per guardare lo schermo del computer. — Può darsi che non abbia capito bene qualcosa, ma tre blocchi di 9/8 e uno di 15/16 ripetuti con una pausa di due battute… mi segue?
Altre chiacchiere.
— Sì. Ma allora, dal la bemolle si passa… Come? Uh… Sì, ce l’ho proprio qui davanti, signor Fugazza… Ma certo, tredici più otto non fa ventuno?
Detto questo la chiacchierata si risolse rapidamente. Roger depose il ricevitore e si girò verso gli ansiosi colleghi del Coro.
— Ci dà il suo beneplacito, — disse, increspando stupefatto la fronte. — Possiamo fare come ci pare e piace.
Era una libertà che nessuno di loro avrebbe previsto.
Quel pomeriggio, mentre il Coro Courage faceva una pausa per rinfrescarsi la gola con il succo di frutta, una macchina si fermò davanti alla casa. Roger aprì la porta, e fece entrare un fotografo brizzolato che aveva tutta l’aria di un prete spretato.
— Salve! Il Coro Courage? Carlo Pignatelli.
Era italiano, ma lavorava per un giornale lussemburghese che l’aveva mandato a fare un servizio sul Benelux Contemporary Music Festival. Aveva già visionato il materiale pubblicitario sul Coro, e sapeva esattamente che cosa voleva.