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«Percorrete la colonna e scaricate tutto quanto non è in­dispensabile» ordinò. «Incolonnatevi lungo la South Jef­ferson Street... ma solo in due colonne, perché alcune delle strade del South Side sono molto strette.»

Mentre si affannava per dirigere le macchine che si radu­navano, cercava con gli occhi il coupé turchino di Carol. Fi­nalmente la vide: era pallida ma guidava con piena padro­nanza, mentre sua zia guardava sbigottita la folla. Kenniston le si avvicinò e la instradò verso la testa della colonna, poi tornò veloce sulla piazza.

Le squadre incaricate dell’ordine, riportarono le disposi­zioni di Kenniston: «Avanti gli abitanti della Adams Street! Avanti gli abitanti della Perry Street! Avanti la Lincoln Avenue...»

Sulla piazza, sotto un grosso albero di sicomoro, un uomo alto e scarno, dagli occhi accesi, brandiva una Bibbia e grida­va: «La fine del mondo... La punizione dei peccati...»

Lauber, lo spedizioniere che McLain aveva lasciato in for­za al primo scaglione, agli ordini di Kenniston, gli si avvicinò di corsa quando raggiunse la South Jefferson Street.

«Questa gente è pazza!» ansimò. «Quelli già pronti vogliono partire subito... e non sanno nemmeno dove an­dare!»

Kenniston vide che la polizia aveva eretto uno sbarramen­to di grossi autocarri attraverso la strada, alcuni metri più in là. Gruppi di macchine premevano contro quello sbarramen­to, coi motori rombanti, mentre i guidatori urlavano e face­vano suonare i clacson in un coro assordante.

Poi, sopra il frastuono dei motori, si udì un altro suono. Un suono lungo, lontano, che gradatamente si mutò in un violento ululato. Il frastuono dei motori e dei clacson cessò di colpo.

«È la sirena del Tubificio!» urlò Lauber. «È il segnale!»

Kenniston lanciò la sua jeep in testa alla colonna.

«Benissimo! Lasciate passare quelle macchine! Ma sfate tutti in colonna. Indietro! Tutti in colonna! Non fate ressa!»

I grossi Diesel che barricavano la strada incominciarono a muoversi ruggendo, pesanti come pachidermi. Kenniston si pose alla testa della colonna. Ma quasi subito le altre macchi­ne cercarono di spingersi ai lati.

«Affiancate gli autocarri a tre a tre!» gridò allora Ken­niston a Lauber. «Questo impedirà i sorpassi!»

Attraversarono la Jefferson Street, il letto del fiume, le vecchie case, chiuse accuratamente, il campo di gioco do­ve i bambini non avrebbero giocato mai più. Oltrepassaro­no la Home Street, gli stabilimenti silenziosi, le birrerie della South Street. Da una finestra, un ubriaco gridava pa­role incoerenti, brandendo una bottiglia. Superarono le ul­time case, coi loro piccoli giardini e i loro fiori anneriti dal gelo.

Kenniston scorse dinanzi a sé la linea di demarcazione, il confine fra il passato e ciò che rimaneva della Terra. Rag­giunsero la linea, l’oltrepassarono...

Poi la pianura sterminata, di quel giallo ocra, deserta e de­solata, sotto l’occhio rosso del sole, si spalancò davanti a lo­ro. Il vento freddo li investì, mentre attaccavano la salita del­le colline. Dietro la sua jeep, i grossi Diesel, le vetturette, gli autobus, le auto da turismo, arrancavano rombando in un nuvolone di polvere.

Kenniston guardò giù, lungo la china. Anche l’altro sca­glione si era mosso, ora, ed egli ormai avanzava alla testa di una gigantesca carovana di veicoli che iniziava alla periferia di Middletown... una carovana che usciva dalla Terra di una volta, per sempre scomparsa, verso il suo ignoto, impenetra­bile domani.

7

Sotto la cupola

Quando raggiunsero la cresta delle colline e per la prima vol­ta arrivarono in vista della città lontana, con la sua cupola che scintillava nella pianura ai pallidi raggi del sole, Kenni­ston capì che un lungo istante di perplessità e di dubbio do­veva percorrere quell’esercito in marcia, di fronte a uno spet­tacolo così incredibile.

Persino lui, vedendola per la seconda volta, si sentì incerto ed esitante. Col ricordo recente della familiare città che ave­va appena lasciata, quella strana, solenne e trascendentale metropoli, protetta da una cupola, gli appariva come un im­possibile rifugio. Cercò di frenare quel senso di timore, dove­va frenarlo a ogni costo, perché bisognava andare là dentro, o rassegnarsi a morire.

«Avanti! Non fermatevi!» ordinò urlando e facendo ge­sti autoritari di comando. «Avanti!»

Superò quel breve attimo di smarrimento, riuscendo a far rimettere in moto la colonna, che si diresse giù per il versan­te delle colline, avvolta in densi nuvoloni di polvere.

Intravide il sindaco Garris, con la faccia grassoccia, spa­ventato e pallido. Cercò anche di indovinare quali pensieri passassero per la mente di Carol, mentre osservava quella specie di bolla, solitaria e risplendente, nella triste distesa de­solata e deserta.

L’interminabile carovana, avvolta nella polvere, era già a metà strada nella discesa del versante delle colline, quando Kenniston udì un rabbioso suonare di clacson e si volse a guardare. Una vecchia berlina si era fermata proprio in mez­zo allo stretto sentiero aperto dagli autocarri di testa nel ter­reno accidentato. Le macchine sopraggiungenti si raggrup­pavano attorno a essa, affondando nel terreno molle, e for­mando una confusione inestricabile. Dietro, la colonna inte­ra si andava arrestando.

Kenniston urlò a Lauber di mantenere la colonna in mar­cia verso la cupola lontana, e quindi mosse velocemente, con la sua jeep, verso il punto dell’incidente. Un gruppo di perso­ne era raccolto attorno alla vecchia berlina, causa di tutto quel pandemonio. Kenniston si fece strada fra di esse.

«Ma che diavolo succede, qui?» domandò. «Di chi è questa macchina?»

Un uomo di mezza età, dal viso abbronzato, si volse verso di lui con viso spaventato, in tono di scusa.

«È la mia... la mia macchina» disse. «Sono John Borzak.»

Fece un gesto vago in direzione del sedile posteriore della vecchia berlina. «Mia moglie sta avendo un bambino là dentro.» Poi aggiunse, a guisa di commento: «Il mio quin­to bambino.»

«Per l’amor del Cielo! Ci mancava anche questa!» gridò Kenniston, mentre Borzak assumeva un’espressione contrita. Ma Borzak appariva talmente spaventato, che Kenniston scoppiò in una risata. Allora tutti si misero a ridere, e questo valse ad allentare la tensione nervosa.

Stando in testa alla colonna, Kenniston era fuori del pol­verone e poteva guardare avanti, verso la misteriosa città lontana. Era ancora una piccola bolla scintillante all’oriz­zonte, un piccolo punto splendente, sperduto e soffocato nel­la vasta solitudine desolata... Quanti chilometri mancavano? Tutto il vasto mondo morto, gli oceani immensi, i luoghi do­ve sorgevano le grandi città, era diventato tutto così? Era co­sì il fondo dell’Atlantico? Erano così i posti dove un tempo sorgevano New York e Parigi? Erano così anche i poli?

Erano ormai arrivati sullo stradone di cemento che porta­va all’ingresso della città. La cupola dell’ultimo rifugio del­l’uomo sulla Terra torreggiava, colossale, immensa, di fronte a loro.

Kenniston vide che gli uomini di Hubble avevano chiuso la grande porta. Quella era, naturalmente, la prima cosa da fare, per conservare il massimo calore possibile e difendere l’interno dal vento gelido. La grande porta si aprì e un uomo armato alzò le braccia in atto di saluto e sorrise. Poi saltò sul predellino della jeep per indicare la strada.

«Andate diritto per questo viale, poi voltate. Vi mostrerò la strada da percorrere. Sì, è tutto pronto. No, nessun segno di vita, sinora. Credo che qui non abiti più nessuno, nemme­no un topo.» Una pausa, poi proseguì: «Sono molto con­tento che siate venuti. Questo posto è talmente silenzioso che spaventerebbe chiunque.»

Gli altissimi, bianchi e silenziosi edifici si susseguivano da­vanti a loro, come torri gigantesche. Sembrava osservassero, coi loro milioni di occhi sbarrati, la lunghissima fila di mac­chine e autocarri polverosi che sfilavano lungo i viali deserti.