Выбрать главу

Si accorse d’un tratto che Gorr Holl gli aveva posato una mano sulla spalla.

«Vieni, Kenniston! Sei sfinito. È bene che tu vada a ripo­sare.»

Il grosso umanoide lo prese in braccio, come un bambino, lo portò in una cabina e lo depose in una cuccetta.

Kenniston non si svegliò che parecchie ore più tardi, tutto intorpidito e ancora stanco per lo sforzo fisico e psichico di quegli ultimi giorni. Guardò fuori dal finestrino. L’incrocia­tore si trovava ora in pieno spazio, superando, a tremenda velocità, il vuoto vertiginoso che lo separava dalla Terra. Kenniston sentì un brivido involontario di piacere. Quei viaggi nelle grandi profondità interstellari cominciavano a diventargli familiari.

Si recò sul ponte interno e vi trovò Magro che parlava col capo pilota.

«Sono stato in ascolto al televisore» diceva Magro. «L’allarme non è ancora stato dato, su Vega.»

«Ma lo daranno non appena si accorgeranno della scom­parsa di Mathis, Varn e Lund, e della nostra fuga.»

«Già. Le navi spaziali del Controllo ci inseguiranno allo­ra come cani. Non avremo molto tempo, sulla Terra.»

Kenniston ascoltò in silenzio. Poi domandò: «Dov’è Arnol?»

«Lo troverai nel compartimento della bomba.»

Mentre Kenniston percorreva una serie di scale, per rag­giungere il compartimento dove la bomba riposava nel suo alveolo, a prova di ogni urto, un pensiero tormentoso lo as­salì nuovamente.

Fino ad allora ne era stato distolto dalla rapidità degli eventi. Ma ora gli sembrava di nuovo assolutamente fantasti­co che si dovessero puntare le speranze dell’ultimo popolo della Terra su quel grosso fuso nero. Era stato provato una volta sola, e quella prova aveva avuto un esito disastroso...

Ma Jon Arnol era seduto, nella penombra del comparti­mento che ospitava la bomba, e sorrideva sereno, felice.

«Stavo ammirando la mia creatura, Kenniston. Ti sembrerà una cosa sciocca, non è vero? Ma ho messo tutta la mia vita in questa cosa inerte. Poi ho atteso... quanto tempo ho atteso! E ora, fra poco...»

Il suo sguardo si posò nuovamente sull’ovoide di metallo nero che stava ai suoi piedi.

«Sembra un sogno, ma si tratta del lavoro di tutta una vi­ta, è una potenza che ridarà la vita a tutto un mondo.»

Scosso dal dubbio che lo tormentava, Kenniston gridò: «Ma potrà questa bomba effettivamente riaccendere il ca­lore spento nell’interno della Terra? In che modo?»

«So qual è l’incertezza che ti tormenta, Kenniston» dis­se Arnol, con voce stanca. «Vorrei spiegarti le mie equazio­ni. Ma come potrei farlo, senza prima insegnarti tutti gli svi­luppi che, attraverso le epoche, sono venuti a determinare una nuova scienza?»

Tacque un momento, perplesso. Poi proseguì: «Anche se sei uno scienziato primitivo, però, sei sempre uno scien­ziato. Cercherò almeno di farti capire il principio su cui mi sono basato. Sai che la maggior parte dei soli ricavano la loro energia da una reazione nucleare che trasforma quat­tro atomi di idrogeno in un atomo di elio, attraverso una serie di trasformazioni graduali coinvolgenti il carbonio e l’idrogeno.»

«Sì, quel ciclo carbonio-idrogeno è stato scoperto nella mia epoca. Gli scienziati lo hanno chiamato Fenice Solare. La piccola frazione di peso atomico residuante dal ciclo era la fonte della radiazione solare.»

«Esattamente» approvò Arnol. «Ciò che non potevi sapere è questo: che gli scienziati, nelle epoche successive, sono riusciti ad applicare reazioni cicliche analoghe ad altri e più pesanti elementi. Questa è proprio la chiave del mio procedimento.

«La maggior parte dei pianeti, come la Terra, hanno al centro una specie di anima costituita da ferro e nichel. Ora, una trasformazione del ferro e nichel in reazione ciclica è stata eseguita in laboratorio ed è riuscita, con liberazione di una enorme energia. Allora mi sono domandato: invece che nel laboratorio, perché non si potrebbe iniziare la reazione all’interno di un pianeta?»

Kenniston lo interruppe, incredulo: «E allora? Avrebbe riprodotto, in quel pianeta, la reazione basica solare?»

«Non proprio così» ammise Arnol «perché il ciclo ferro-nichel non cede una radiazione tanto terrificante come quella della vostra cosiddetta Fenice Solare. Creerebbe, però, una gigantesca fornace solare nell’interno del pianeta, e fa­rebbe salire di molti gradi la temperatura di superficie di quel mondo.»

La voce di Kenniston era preoccupata, mentre doman­dava: «E non vi sarebbe il pericolo che la reazione nucleare raggiungesse, scoppiando, la superficie?»

«No, non potrà mai raggiungere la superficie» affermò Arnol. «Il ciclo può solo alimentarsi su nichel e su ferro, e la massa esterna di silicio e alluminio, che avvolge l’anima in­terna, conterrà la reazione per sempre.

«Questa è la ragione per la quale la bomba energetica che provoca la reazione dev’essere fatta deflagrare entro l’anima del pianeta. E questa è la ragione per la quale possiamo ap­plicare rapidamente il procedimento alla Terra... perché que­gli antichi pozzi, scavati per ricavarne calore, forniscono un accesso immediato all’anima del pianeta, senza alcun biso­gno di un preliminare ed elaboratissimo lavoro di perfora­zione.»

Kenniston fece col capo un cenno affermativo. La teoria gli sembrava abbastanza solida. Eppure...

«Ma» disse lentamente «quando hai tentato la prima volta questo procedimento, il pianeta sul quale l’hai speri­mentato è stato quasi interamente distrutto dai terremoti provocati dalla convulsione iniziata nell’anima del pianeta stesso.»

«Non si trattava di un pianeta, ma di un planetoide» corresse Arnol, con la sua voce stanca. «Questo l’ho già spiegato tante volte. La massa del planetoide non era suffi­ciente a sostenere l’esplosione.» Poi, d’improvviso, ebbe uno scatto d’ira. «Perché sono stato così pazzo da accettare quell’impossibile tentativo? Ma, te lo ripeto, Kenniston, so ciò che sto facendo. L’intero Collegio della Scienza non ha potuto portare alcuna critica alle mie equazioni. Dovrai ac­contentarti di questo.»

«Sì» disse Kenniston. «Ne sono convinto.»

Lasciando Arnol, Kenniston non poté interamente soffo­care le sue apprensioni. Creare una fornace nel cuore di un pianeta era, per la sua mentalità, non meno incredibile di quanto doveva essere apparsa la creazione del fuoco per il primo uomo. E se, contrariamente a quanto diceva Arnol, avesse condannato la Terra definitivamente, invece di sal­varla?

Con un improvviso senso di colpa, pensò a Varn Allan. Tanto lei quanto Lund e Mathis, prigionieri contro la loro vo­lontà, avrebbero dovuto essere posti in libertà prima del grande rischio. Doveva almeno darle quell’assicurazione.

La porta della cabina aveva una serratura a combinazione cifrata e i numeri erano stati comunicati a tutti, in caso di ne­cessità. Kenniston aprì la porta ed entrò.

Varn Allan stava seduta, come già a bordo del Thanis,guardando dal finestrino l’immensità dello spazio. Kenni­ston capì che non aveva dormito, perché aveva il viso stanco e pallido.

Al suo ingresso, lei si rialzò e si rivolse a lui con atto di sfida.

«Siete tornati ragionevoli e avete deciso di abbandonare il vostro criminale progetto?» domandò.

Il duro sguardo dei suoi occhi azzurri risvegliò l’ira nel cuore di Kenniston.

«No» rispose questi. «Sono venuto semplicemente ad avvertirvi che a voi, a Lund e a Mathis sarà concesso di la­sciare la Terra prima che il tentativo venga eseguito.»

«Credete che mi preoccupi della mia salvezza?» gridò Varn Allan. «Mi preoccupo per le migliaia di persone del vo­stro popolo, che voi mettete in pericolo, con questa pazza sfi­da alla legge della Federazione.»

«All’inferno la legge della Federazione!» proruppe ruvi­damente Kenniston.